Continua la saga di fantascienza Bonelli targata Roberto Recchioni. Il campo si restringe e vengono approfondite la psicologia e la storia dei singoli personaggi. La narrazione prosegue fresca, spigliata e coinvolgente, in un'ottima iterazione tra passato e presente basata sull'ormai solida struttura bitemporale, spina dorsale della serie.
Alla fine ci ho preso gusto. Come avevo scritto nel mio primo commento riguardante il primo numero di Orfani, mi sono approcciato a questo lavoro più per l'altissimo hype che lo circondava, piuttosto che per un interesse reale. Ok, la fantascienza, l'azione e i bei disegni in generale sono tre cose che mi attirano, ma comunque non posso certo dire che Orfani rientrasse nelle mie priorità in quanto ad aspettative fumettistiche. Dopo la lettura non strabiliante, ma comunque gradevole del primo numero, ho deciso di portare avanti la serie e mi sono preso anche gli altri due volumi pubblicati dalla Bonelli.
Dopo aver presentato situazione generale e personaggi, Roberto Recchioni, nel secondo volume si dimostra pronto a sfruttare la struttura bitemporale per passare da un racconto che predilige la coralità ad un indagine più specifica e approfondita sui singoli personaggi. La protagonista di quest'albo è sicuramente Juno e i due spazi temporali corrispondono ad una corrispettiva dicotomia sentimentale. Nella prima parte, ambientata nel passato, durante l'addestramento degli Orfani nel campo di Dorsoduro, ci viene presento l'odio della ragazzina per gli adulti suoi superiori, in particolare per il Colonnello Nakamura, con il quale istaura un rapporto rancoroso a cui si mischia presto l'intento di vendicare il fratello, morto ancora prima di raggiungere il campo d'addestramento. Nella seconda parte, quella ambientata nel futuro, scopriamo che Juno intrattiene una relazione con uno dei suoi compagni. Insieme saranno impegnati in una missione ad alta pericolosità sul pianeta alieno, che li porterà a rafforzare ancor di più il loro legame e condurrà Juno a trovare una sorta di calma interiore che fa da contraltare all'ansia e alla rabbia espressa nella prima parte del volume.
Passando ora alla trama del terzo volume, possiamo rilevare che come succede già nel secondo, l'occhio narrativo di Recchioni si concentra più in particolare su uno dei personaggi. Questa volta approfondiremo il nostro rapporto con Ringo. Giovanissimo torero prima dell'esplosione apocalittica che da il via alla saga, Ringo è un ragazzo coraggioso ed istintintivo che mal sopporta le regole e le gerarchie. Nella prima parte del volume, quella ambientata nel passato, viene condannato a morte dal Colonnello Nakamura a causa della sua insubordinazione. Il ragazzo ha un carattare poco gestibile e il colonnello vede in lui un possibile problema anche per gli altri futuri soldati. L'unico modo per risparmiargli la vita, sarebbe riuscire a farlo rientrare nei ranghi e piegare il suo carattere impulsivo e insubordinato. Per farlo la dottoressa Juric ricatta Ringo minacciando Sam, la ragazza più piccola tra gli Orfani, alla quale il ragazzo è molto legato.
Nella seconda parte di questo terzo albo, invece, Recchioni ci scaraventa su un pianeta sconosciuto. Ringo, precipitato a modi Star Wars su questo suolo misterioso, dovrà cercare di cavarsela in una situazione alquanto critica e nel frattempo l'incontro con una mostruosa entità aliena a forma di toro, lo porterà a rispecchiarsi con il suo passato, esattamente come successe a Juno nel secondo volume.
La struttura di Orfani è ormai ben delineata. I due canali temporali permettono a Recchioni di approfondire in modo fresco e coinvolgente sia la trama principale che il carattere e la psicologia di ogni personaggio, in una rete di rimandi tra passato e presente che si fa sempre più intricata e corposa. La narrazione è sempre molto scorrevole e accattivante, il ritmo è sempre alto e perciò l'intrattenimento è assicurato. I personaggi, nonostante possano risultare un pò stereotipati, sono dotati di grande carisma e potenza concettuale.
Lo stile di disegno messo in campo da Alessandro Bignamini nel secondo volume e da Gigi Cavenago nel terzo, non si discostano da quell'efficace mix tra cartoonesco e realistico mostrato dal lavoro di Mammuccari nel primo albo. I tratti sono precisi e raffinati, le scene action sono rese con ottimo dinamismo e i tagli delle inquadrature si adattano perfettamente allo stile cinematografico da blockbuster di fantascienza leggera di ottima fattura, tipico della serie.
Per concludere, dopo la lettura di questi primi tre volumi, posso confermare le mie prime impressioni su Orfani, ovvero un fumetto che riesce a garantire un alto livello di intrattenimento, caratterizzato da una sceneggiatura solida e da uno stile grafico spettacolare e accattivante.Non è di certo un capolavoro, ne l'opera più originale del mondo, ma se si cerca una bella lettura, leggera, adrenalinica e coinvolgente è sicuramente una scelta da prendere in considerazione.
venerdì 27 dicembre 2013
Orfani 2-3
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domenica 22 dicembre 2013
Semi di Futuro
Chiude oggi 22 Dicembre 2013, la mostra Semi di Futuro, inaugurata il 9 Ottobre presso la Triennale di Milano. L'esposizione gratuita curata da Luisa Collina, Paola Trapani con Federico Bucci indaga sul muoversi, l'abitare ed il lavorare nel 2033. Il progetto artistico ed il percorso multimediale sono stati curati dal notissimo Studio Azzurro, mentre la grafica è ad opera di Magutdesign.
La mostra propone una tematica interessante e nella storia delle istallazioni già più volte percorsa. Il futuro, le sue previsioni sono sicuramente un tema interessante, basti pensare al successo dell'Expo di New York del 1939 "The world of tomorrow", o quella più criticata del 1964. Prevedere il futuro o mondi futuribili è una delle maggiori influenze di tutta l'architettura degli anni '50, '60, '70, pensiamo ai gonfiabili, ai progetti degli Archigram o alle case dei coniugi Smithson. Il tema della fantascienza è senza ombra di dubbio una larga parte della nostra produzione cinematografica e letteraria.
Tornando, tuttavia, alla mostra Semi del Futuro, il mondo che si cerca di immaginare è quello tra 20 anni, una Milano futuribile che parte da progetti e visioni già esistenti, ma che si pensa avranno una forte influenza nel prossimo futuro.
Il percorso si sviluppa lungo tre macroaree di interesse ed indagine. La prima riguarda la Mobilità, la seconda l'Abitare e la terza il Lavorare. Trasversali a queste tematiche le indagini specifiche di scenari futuribili si scindono in 4 tipologie di società/persone, espresse ed indagate attraverso i totem interattivi in vetro. I due assi di valori utilizzati per definire questi 4 spicchi di società, logicamente teorici, dato che la pratica è molto più variegata, sono da un lato le tecnologie, da endemiche a pandemiche, e dall'altro le tipologie di relazioni, da comunitare ad autonome. Gli scenari trasversali che si ottengono sono quindi: la Città governata, ovvero un gruppo fortemente legato ad un governo forte, che crede nel pubblico e utilizza tecnologie pandemiche; il gruppo simpaticamente chiamato dei "Mark Zuckerberg", geniali, individali ed autonomi; i Makers, ovvero i neoartigiani che prediligono il lavoro individuale con tecnologie locali ed infine il gruppo definito SLOC, dove la comunità prevede piccoli sottogruppi interni, fortemente connessi, che abitano una campagna tecnologica a livello endemico.
Questi scenari trasversali vengono rappresentati attraverso un totale di 12 totem in vetro (4 per ogni area), sui quali scorrono volti di milanesi futuri. Tramite un semplice gesto di può quindi interrogare questi futuri noi ed avere una breve descrizione di attimi del loro vivere in relazione alla macroarea dove ci si trova ed al loro gruppo di appartenenza. Contemporaneamente in prossimità del totem appaiono a terra proiettate in riquadri tratteggiati, delle animazioni che illustrano i vari racconti. Lo stile grafico è semplice e basilare, quello di uno schizzo, che non vuole rappresentare una certezza, ma solo delineare delle possibilità.
Accanto alla parte maggiormente interattiva, quella dei totem, si sviluppano altre due linee guida che seguono due differenti metodi espositivi. Gli oggetti fisici, posizionati su pedane, illustrano delle memorabilia. Oggetti del passato, che costituirono ai tempi veri e propri semi del futuro. Tra questi vediamo Diamante, l'auto progettata da Giò Ponti, con carrozzeria in tessuto, o ancora il primo comuputer, la Mini Kitchen di Joe Colombo e tanti altri. Alle pareti invece troviamo una serie di immagini di progetti esistenti, i veri e propri semi di futuro, divisi in due tipologie. Le immagini imbrigliate in cornici rettangolari, ci propongono progetti esistenti e già affermati, ma che nel futuro avranno uno sviluppo sicuramente pregnante ed un ruolo fondamentale nella società. un esempio, all'interno della Mobilità, è costituito dall'Alta Velocità. Nelle cornici ovali, invece, sono riportati una serie di progetti esistenti, ma non diffusi, i quali possono costituire dei segnali di tendenze e tecnologie che verranno diffuse. Un esempio riguarda sicuramente i viaggi orbitali, ora possibili, ma improponibili a livello di costi, essi potrebbero diventare più comuni ed economicamente abbordabili anche se come servizio di lusso.
Semi di Futuro, mostra celebrativa del 150esimo del Politecnico di Milano, ha saputo quindi trattare un tema così ampiamente trattato, in modo sofisticato e in un certo senso realistico. La panoramica, gli scenari proposti, di cui non siamo qui entrati nel dettaglio, partono da elementi esistenti, segnali di progresso che già sono intorno a noi. Punta inoltre ad un futuro prossimo e non remoto con la consapevolezza che il nostro progredire deve avere dei limiti in emissioni nocive e di CO2. Si pone davanti ad una ricerca realistica, che vede nel mondo di domani un mondo elettrico, interattivo, dove la fabbrica torna in città, dove anche la fattoria entra nel tessuto urbano, un mondo realizzabile, un pò più verde e decisamente meno grigio.
La mostra propone una tematica interessante e nella storia delle istallazioni già più volte percorsa. Il futuro, le sue previsioni sono sicuramente un tema interessante, basti pensare al successo dell'Expo di New York del 1939 "The world of tomorrow", o quella più criticata del 1964. Prevedere il futuro o mondi futuribili è una delle maggiori influenze di tutta l'architettura degli anni '50, '60, '70, pensiamo ai gonfiabili, ai progetti degli Archigram o alle case dei coniugi Smithson. Il tema della fantascienza è senza ombra di dubbio una larga parte della nostra produzione cinematografica e letteraria.
Tornando, tuttavia, alla mostra Semi del Futuro, il mondo che si cerca di immaginare è quello tra 20 anni, una Milano futuribile che parte da progetti e visioni già esistenti, ma che si pensa avranno una forte influenza nel prossimo futuro.
Il percorso si sviluppa lungo tre macroaree di interesse ed indagine. La prima riguarda la Mobilità, la seconda l'Abitare e la terza il Lavorare. Trasversali a queste tematiche le indagini specifiche di scenari futuribili si scindono in 4 tipologie di società/persone, espresse ed indagate attraverso i totem interattivi in vetro. I due assi di valori utilizzati per definire questi 4 spicchi di società, logicamente teorici, dato che la pratica è molto più variegata, sono da un lato le tecnologie, da endemiche a pandemiche, e dall'altro le tipologie di relazioni, da comunitare ad autonome. Gli scenari trasversali che si ottengono sono quindi: la Città governata, ovvero un gruppo fortemente legato ad un governo forte, che crede nel pubblico e utilizza tecnologie pandemiche; il gruppo simpaticamente chiamato dei "Mark Zuckerberg", geniali, individali ed autonomi; i Makers, ovvero i neoartigiani che prediligono il lavoro individuale con tecnologie locali ed infine il gruppo definito SLOC, dove la comunità prevede piccoli sottogruppi interni, fortemente connessi, che abitano una campagna tecnologica a livello endemico.
Questi scenari trasversali vengono rappresentati attraverso un totale di 12 totem in vetro (4 per ogni area), sui quali scorrono volti di milanesi futuri. Tramite un semplice gesto di può quindi interrogare questi futuri noi ed avere una breve descrizione di attimi del loro vivere in relazione alla macroarea dove ci si trova ed al loro gruppo di appartenenza. Contemporaneamente in prossimità del totem appaiono a terra proiettate in riquadri tratteggiati, delle animazioni che illustrano i vari racconti. Lo stile grafico è semplice e basilare, quello di uno schizzo, che non vuole rappresentare una certezza, ma solo delineare delle possibilità.
Isetta, di E. Preti |
Accanto alla parte maggiormente interattiva, quella dei totem, si sviluppano altre due linee guida che seguono due differenti metodi espositivi. Gli oggetti fisici, posizionati su pedane, illustrano delle memorabilia. Oggetti del passato, che costituirono ai tempi veri e propri semi del futuro. Tra questi vediamo Diamante, l'auto progettata da Giò Ponti, con carrozzeria in tessuto, o ancora il primo comuputer, la Mini Kitchen di Joe Colombo e tanti altri. Alle pareti invece troviamo una serie di immagini di progetti esistenti, i veri e propri semi di futuro, divisi in due tipologie. Le immagini imbrigliate in cornici rettangolari, ci propongono progetti esistenti e già affermati, ma che nel futuro avranno uno sviluppo sicuramente pregnante ed un ruolo fondamentale nella società. un esempio, all'interno della Mobilità, è costituito dall'Alta Velocità. Nelle cornici ovali, invece, sono riportati una serie di progetti esistenti, ma non diffusi, i quali possono costituire dei segnali di tendenze e tecnologie che verranno diffuse. Un esempio riguarda sicuramente i viaggi orbitali, ora possibili, ma improponibili a livello di costi, essi potrebbero diventare più comuni ed economicamente abbordabili anche se come servizio di lusso.
Semi di Futuro, mostra celebrativa del 150esimo del Politecnico di Milano, ha saputo quindi trattare un tema così ampiamente trattato, in modo sofisticato e in un certo senso realistico. La panoramica, gli scenari proposti, di cui non siamo qui entrati nel dettaglio, partono da elementi esistenti, segnali di progresso che già sono intorno a noi. Punta inoltre ad un futuro prossimo e non remoto con la consapevolezza che il nostro progredire deve avere dei limiti in emissioni nocive e di CO2. Si pone davanti ad una ricerca realistica, che vede nel mondo di domani un mondo elettrico, interattivo, dove la fabbrica torna in città, dove anche la fattoria entra nel tessuto urbano, un mondo realizzabile, un pò più verde e decisamente meno grigio.
mercoledì 18 dicembre 2013
Magneto testamento
Il mio nome è Max Eisenhardt.
Sono stato un Superkommando ad Auschwitz per quasi due anni.
Ho visto migliaia di uomi, donne e bambini camminare incontro alla morte.
Ho portato fuori i loro corpi dalle camere a gas. Ho estratto loro i denti, cosicchè i tedeschi potessero prendere l’oro.
Li ho portati ai forni, dove ho imparato a disporre insieme i corpi di un bambino e di un vecchio perchè bruciassero meglio.
Ho visto i miei compagni sepolti vivi da una montagna di cadaveri putrefatti.
Ho visto migliaia di persone assassinate bruciare in giganteschi pozzi esterni.
Ho visto morire con i miei occhi almeno un quarto di milione di esseri umani.
Premettendo che non sono una lettrice Marvel, ne una appassionata degli X-Men, mi è capitato quasi per caso o forse per sfida di leggere la graphic novel Magneto Testamento. Direi che non esiste sicuramente modo migliore di avvicinarsi alla Marvel da profana quale sono.
Siamo nel 1935, in Germania, Hitler è ormai al potere, proclamato cancelliere nel 1933, emana in questo anno le tristemente celebri Leggi di Norimberga. Il protagonista della vicenda è un giovane adolescente, Max, un ragazzo dotato, intelligente ed ebreo. La cornice in cui si sviluppa la storia è decisamente nota, l'ascesa del regime nazista, la caccia agli ebrei, la shoa. Un argomento delicato, che viene trattato nei testi di Greg Pak e nelle illustrazioni di Carmine Di Giandomenico, in modo esemplare, delicato, toccante ed emozionante. L'impaginazione alterna pagine libere ad intere sequenze imbrigliate e costrette, che rendono perfettamente l'idea della terrificante prigionia dei campi di concentramento e contribuiscono alla narrazione stessa. Il disegno, a metà tra realismo e stile cartoon, riesce a creare una comunicazione di fondo, che sembra non necessitare di parole. I capitoli inoltre vengono intervellati da stupendi dipinti digitali di Marko Djurdjevic (copertine dei volumi singoli della prima edizione). Gli sguardi rappresentati da Di Giandomenico, diventano protagonisti e fautori della narrazione e
in essi leggiamo l'evoluzione dei personaggi. Ritroviamo il padre di Max, nei quali occhi non cessa mai di luccicare la speranza, un veterano di guerra, funzionario statale che non smette di credere che il Paese per cui ha dato tanto non gli volterà le spalle. Gli occhi grandi di Magda, ragazzina rom, amore adolescenziale di Max e sua ragione di vita. In tutta la narrazione sono poche le parole riservate a questo personaggio, che tuttavia rimane impresso nel lettore proprio grazie a questi occhi, i suoi sguardi sono i più rumorosi, quelli di chi è stato sempre al margine, di chi non ha diritto di parola, di chi ha paura.
Poi c'è Max, totalmente all'oscuro dei suoi poteri, con quegli occhi che come dice il padre "ci hanno sempre visto bene", giovane, irrequieto e costretto a prendere decisioni a cui nessuno dovrebbe nemmeno pensare, ad assistere agli orrori della storia senza proferir parola, senza muovere il minimo muscolo. Emerge da Magneto Testamento, questa spinta per la sopravvivenza comune, questo senso di gruppo. Per il bene comune, per evitare le stragi e le ripercussioni non bisogna reagire, ma solo subire ed alla fine si muore comunque, lo sterminio avviene lo stesso. Risuonano, quindi, quelle parole dette dal padre di Max "A volte nella vita arriva un momento in cui tutto diventa chiaro. In cui tutto è possibile. In cui improvvisamente tu puoi far succedere qualcosa. Che Dio ci aiuti se cogliamo quel momento. E Dio ci perdoni se lo lasciamo sfuggire", ed è a quel punto che c'è una reazione, una ribellione contro l'oppressore, contro quei fantasmi dallo sguardo di ghiaccio vuoto ed assente. Un impeto alla vita, una presa di posizione di quegli individui consapevoli che stando alle regole non si sopravvive comunque, individui stanchi di essere inermi di fronte alla strage, stanchi di bruciare cadaveri della propria gente. Questa storia quindi dal 1935 arriva fino al 1944, alla rivolta dei Crematori II e IV ad Auschwitz, fomentata da Max stesso e dove egli coglie l'occasione per fuggire con Magda.
Al termine quello che vediamo è un Max diverso, gli occhi, lo sguardo non sono più gli stessi stessi, sono quelli di Erik Magnus Lehnsherr, del sarà Magneto, il cattivo più famoso e riuscito della Marvel. "Il mio nome è Max Eisenhardt chiunque trovi questo, sappia che mi dispiace. Perchè io sono morto e ora è tutto nelle vostre mani. Ditelo a tutti. A chi ascolterà e a chi no. Vi prego. Fate che non succeda mai più." Questo testamento del giovane Magneto, ritrovato da egli stesso, è un augurio, ma al tempo stesso la testimonianza che il giovane Max è morto in quel campo, dove ha lasciato se stesso.
Sicuramente questa storia permette di vedere in modo diverso uno dei villans più celebri Marvel. Sembra infatti che quel giovane ragazzo, coraggioso, vittima di tali atrocità si sia trasformato da vittima a carnefice. Da un lato ci permette di capire la dualità che fa oscillare nei racconti Marvel il personaggio di Magneto dal lato buono a quello cattivo, dall'altro ci pone di fronte ad più grande interrogativo: come può Max, dopo aver subito la discriminazione raziale, fare di questa la sua ragione di vita. Il signore del magnetismo infatti pone la sua "razza superiore", quella dei mutanti, sopra quella umana che vuole ditruggere. A mio parere Max muore in quel campo, insieme agli orrori e alle sue azioni. Erik si ritrova all'interno di una minoranza, speciale, "quel chiodo più alto", per citare il suo professore di scuola. Questa volta però egli ha già visto cosa la gente fa ai chiodi più alti, li schiaccia e ditrugge ed è questa paura, che viene dal suo passato, a trasformarlo ed a portarlo dall'altra parte, quella dei carnefici.
domenica 15 dicembre 2013
In fondo alla Palude
Joe R. Lansdale fa un salto indietro al 1933, portandoci nel suo amato Texas alle prese con la grande depressione e tirando le fila di una caccia serrata sulle orme di uno spietato serial killer. Il tutto visto dagli occhi della memoria di un ragazzino ormai vecchio.
Polvere, paludi, boschi. Un'estate torrida e polverosa, sempre pronta ad essere scossa da violenti temporali. Un'affresco d'America con le sue superstizioni e le sue paure. Tra l'ignoranza della massa e la buona volontà di chi, malgrado tutto, cerca di mettercela tutta per cambiare le cose, anelando a quella giustizia che sembra una cosa così lontana dalla civiltà degli uomini, quanto quelle sperdute terre nel remoto sud degli Stati Uniti.
Se, come ha detto Steinbeck, il Texas è uno stato mentale, quando partecipo di questo stato c'è solo un nome che riempie la mia mente, quello di Joe R. Lansdale. Per me leggere il buon vecchio Joe è un pò come tornare a casa dopo un lungo viaggio. C'è quello stile inconfondibile, che hai già imparato ad amare, con tutte le sue peculiarità, le sue espressioni, le sue immagini e i suoi temi in cui non puoi fare a meno di ritrovarti e sentirti al sicuro perchè, in qualche modo, sai già che non potrà deluderti. Così, infatti, è stato con "In fondo alla palude" l'ultimo libro dell'autore americano che mi è capitato di leggere.
La vicenda si svolge nel 1933 a Marvel Creek, una piccola cittadina nel pieno del Texas orientale. La grande depressione fa sentire il suo peso sulla Nazione a stelle e strisce e il Sud, sfondo del romanzo, si presenta come un luogo arretrato, aspramente rurale e attraversato da violente tempeste di sabbia che ne hanno devastato i raccolti.
In questo periodo si svolge l'infanzia di Harry, un vivace e curioso pre-adolescente, che ama passare le lunghe gionate estive sul fiume pescando e cacciando scoiattoli nei boschi limitrofi, in compagnia del suo fido cane Toby "il miglior cacciatore di scoiattoli della zona". I due sono accompagnati di buona lena dalla sorellina di Harry, Tom, che condivide con gioia le loro attività. Una sera, tornando verso casa, scoprono nelle terre basse, in bilico tra la vegetazione rigogliosa e l'intricata palude, il cadavere di una donna nera precedentemente torturata e seviziata. Questo sarà l'inizio di una appassionante indagine, che avrà protagonista, oltre ai due bambini, anche loro padre, Jacob, barbiere, agricoltore e tutore locale della legge insieme a tante altre figure secondarie tra le quali spicca sicuramente quella delle nonna. L'omicidio della donna di colore scoperto da Harry e Tom è solo il primo di una lunga serie di efferati crimini e piano piano si delinea l'immagine di un vero e proprio mostro responsabile delle atrocità. Dall'immagine superstiziosa dell'uomo-capra, essere leggendario che ha venduto l'anima al diavolo, si arriverà a quella più razionale di uno spietato serial killer che non si fermerà davanti a categorizazioni come razza, colore ed età nella scelta delle sue vittime.
In fondo alla palude è un thriller mozzafiato, la vicenda riesce a coinvolgere fin dalle prime righe e presto ci troviamo a porci gli stessi interrogativi dei protagonisti e ad arrovellarci il cervello su chi possa essere l'autore della serie di omicidi che sta sconvolgendo Marvel Creek. L'avventura tratteggiata da Lansdale, tuttavia, pur avendo un impianto thrilleristico, è molto altro e molto altro. Inanzitutto è un racconto di formazione. Il giovane Harry vive un'estate "alla Stand By Me" e dal primo ritrovamento del cadavere, passando poi per le indagini insieme al padre e tutte le complicazioni emotive, culturali ed esistenziali che se ne seguono, vivrà il suo passaggio ufficiale all'età adulta. L'uscita dalle illusioni dell'infanzia segue il filo conduttore della narrazione, portando dalle terrorizzanti fantasie sull'uomo capra alla reale follia del serial killer. Altro elemento fondamentale, tipico nella narrazione dell'autore americano, è la grande attenzione per le dinamiche sociali. Qui si è calati in un tempo ormai lontano della storia americana, ma che ha lasciato segni indelebili sul presente. Lansdale ci parla di razzismo, di discrimanazione e violenza e lo fa con la solita sincerità e semplicità che non lascia spazio a sentimentalismi di sorta. Linciaggi, pestaggi e insulti sono frutto dell'ignoranza della gente che preferisce rinchiudersi nell'odio comune che protegge e trova un colpevole facile, piuttosto che assumersi la responsabilità di cercare e di interrograsi. Tutto questo ci è sbattuto in faccia senza fronzoli, Lansdale firma pagine nere e crudeli, aiutato dalla solita sua proverbiale simpatia per le atmosfere pulp, ma anche da una profonda consapevolezza delle radici che affondano nella sua terra, il Texas, quel paese torrido e immenso che trasuda da ogni pagina dei suoi libri.
Tutti i personaggi presentati vengono tratteggiati con amore e dedizione dall'autore che li accompagna all'interno della vicenda, svelandone i particolari e gli aneddoti e dando vita ad un collage di esistenze che si intrecciano e si sfiorano, come granelli di polvere sospinti dal vento impetuoso delle immense lande d'america. In linea con questa tendenza risulta essere azzeccatissima la scelta di affidare degli intermezzi narrativi al presente a Harry, ormai vecchio e confinato in una casa di riposo, per poi passare al ricordo di quest'ultimo che svolge la vicenda vera e propria. Inoltre, in conclusione del romanzo, Lansdale ci fornisce una rapida carrellata di immagini che fanno da cesura tra la vecchiaia presente di Harry e l'intenso ricordo di quest'estate, riassumendo le vite di tutti personaggi presentati ed esprimendo con sentita malinconia la sensazione dello scorrere del tempo e, con esso, anche la passione della giovinezza. Il legame di Harry con quell'estate assume il significato del punto cruciale di un'intera esistenza, che se fosse circolare, ora che sta volgendo al termine probabilmente tornerebbe in quei boschi, con il fiato corto a cercare il killer con suo padre.
Per concludere, In fondo alla palude è un thriller validissimo, capace di tenere alta la tensione fino alla fine della lettura, scritto con uno stile semplice e crudo, ma altrettanto accattivante. E' un potente affresco d'America alle prese con un periodo difficile come quello della depressione con le sue paure, i suoi pregiudizi e i suoi umili abitanti, che non può non colpire nel segno per sincerità e forza di coinvolgimento.
Polvere, paludi, boschi. Un'estate torrida e polverosa, sempre pronta ad essere scossa da violenti temporali. Un'affresco d'America con le sue superstizioni e le sue paure. Tra l'ignoranza della massa e la buona volontà di chi, malgrado tutto, cerca di mettercela tutta per cambiare le cose, anelando a quella giustizia che sembra una cosa così lontana dalla civiltà degli uomini, quanto quelle sperdute terre nel remoto sud degli Stati Uniti.
Se, come ha detto Steinbeck, il Texas è uno stato mentale, quando partecipo di questo stato c'è solo un nome che riempie la mia mente, quello di Joe R. Lansdale. Per me leggere il buon vecchio Joe è un pò come tornare a casa dopo un lungo viaggio. C'è quello stile inconfondibile, che hai già imparato ad amare, con tutte le sue peculiarità, le sue espressioni, le sue immagini e i suoi temi in cui non puoi fare a meno di ritrovarti e sentirti al sicuro perchè, in qualche modo, sai già che non potrà deluderti. Così, infatti, è stato con "In fondo alla palude" l'ultimo libro dell'autore americano che mi è capitato di leggere.
La vicenda si svolge nel 1933 a Marvel Creek, una piccola cittadina nel pieno del Texas orientale. La grande depressione fa sentire il suo peso sulla Nazione a stelle e strisce e il Sud, sfondo del romanzo, si presenta come un luogo arretrato, aspramente rurale e attraversato da violente tempeste di sabbia che ne hanno devastato i raccolti.
In questo periodo si svolge l'infanzia di Harry, un vivace e curioso pre-adolescente, che ama passare le lunghe gionate estive sul fiume pescando e cacciando scoiattoli nei boschi limitrofi, in compagnia del suo fido cane Toby "il miglior cacciatore di scoiattoli della zona". I due sono accompagnati di buona lena dalla sorellina di Harry, Tom, che condivide con gioia le loro attività. Una sera, tornando verso casa, scoprono nelle terre basse, in bilico tra la vegetazione rigogliosa e l'intricata palude, il cadavere di una donna nera precedentemente torturata e seviziata. Questo sarà l'inizio di una appassionante indagine, che avrà protagonista, oltre ai due bambini, anche loro padre, Jacob, barbiere, agricoltore e tutore locale della legge insieme a tante altre figure secondarie tra le quali spicca sicuramente quella delle nonna. L'omicidio della donna di colore scoperto da Harry e Tom è solo il primo di una lunga serie di efferati crimini e piano piano si delinea l'immagine di un vero e proprio mostro responsabile delle atrocità. Dall'immagine superstiziosa dell'uomo-capra, essere leggendario che ha venduto l'anima al diavolo, si arriverà a quella più razionale di uno spietato serial killer che non si fermerà davanti a categorizazioni come razza, colore ed età nella scelta delle sue vittime.
In fondo alla palude è un thriller mozzafiato, la vicenda riesce a coinvolgere fin dalle prime righe e presto ci troviamo a porci gli stessi interrogativi dei protagonisti e ad arrovellarci il cervello su chi possa essere l'autore della serie di omicidi che sta sconvolgendo Marvel Creek. L'avventura tratteggiata da Lansdale, tuttavia, pur avendo un impianto thrilleristico, è molto altro e molto altro. Inanzitutto è un racconto di formazione. Il giovane Harry vive un'estate "alla Stand By Me" e dal primo ritrovamento del cadavere, passando poi per le indagini insieme al padre e tutte le complicazioni emotive, culturali ed esistenziali che se ne seguono, vivrà il suo passaggio ufficiale all'età adulta. L'uscita dalle illusioni dell'infanzia segue il filo conduttore della narrazione, portando dalle terrorizzanti fantasie sull'uomo capra alla reale follia del serial killer. Altro elemento fondamentale, tipico nella narrazione dell'autore americano, è la grande attenzione per le dinamiche sociali. Qui si è calati in un tempo ormai lontano della storia americana, ma che ha lasciato segni indelebili sul presente. Lansdale ci parla di razzismo, di discrimanazione e violenza e lo fa con la solita sincerità e semplicità che non lascia spazio a sentimentalismi di sorta. Linciaggi, pestaggi e insulti sono frutto dell'ignoranza della gente che preferisce rinchiudersi nell'odio comune che protegge e trova un colpevole facile, piuttosto che assumersi la responsabilità di cercare e di interrograsi. Tutto questo ci è sbattuto in faccia senza fronzoli, Lansdale firma pagine nere e crudeli, aiutato dalla solita sua proverbiale simpatia per le atmosfere pulp, ma anche da una profonda consapevolezza delle radici che affondano nella sua terra, il Texas, quel paese torrido e immenso che trasuda da ogni pagina dei suoi libri.
Tutti i personaggi presentati vengono tratteggiati con amore e dedizione dall'autore che li accompagna all'interno della vicenda, svelandone i particolari e gli aneddoti e dando vita ad un collage di esistenze che si intrecciano e si sfiorano, come granelli di polvere sospinti dal vento impetuoso delle immense lande d'america. In linea con questa tendenza risulta essere azzeccatissima la scelta di affidare degli intermezzi narrativi al presente a Harry, ormai vecchio e confinato in una casa di riposo, per poi passare al ricordo di quest'ultimo che svolge la vicenda vera e propria. Inoltre, in conclusione del romanzo, Lansdale ci fornisce una rapida carrellata di immagini che fanno da cesura tra la vecchiaia presente di Harry e l'intenso ricordo di quest'estate, riassumendo le vite di tutti personaggi presentati ed esprimendo con sentita malinconia la sensazione dello scorrere del tempo e, con esso, anche la passione della giovinezza. Il legame di Harry con quell'estate assume il significato del punto cruciale di un'intera esistenza, che se fosse circolare, ora che sta volgendo al termine probabilmente tornerebbe in quei boschi, con il fiato corto a cercare il killer con suo padre.
Per concludere, In fondo alla palude è un thriller validissimo, capace di tenere alta la tensione fino alla fine della lettura, scritto con uno stile semplice e crudo, ma altrettanto accattivante. E' un potente affresco d'America alle prese con un periodo difficile come quello della depressione con le sue paure, i suoi pregiudizi e i suoi umili abitanti, che non può non colpire nel segno per sincerità e forza di coinvolgimento.
domenica 8 dicembre 2013
Cages
Un intreccio di vite, parole e immagini. Ipnotico, surreale, mitico e metafisico, Cages di Dave Mckean, esplora il mistero e le questioni insite nell'atto creativo. Un mix di tecniche narrative ed espressive che non può mancare nella biblioteca di qualunque amante del fumetto e dell'arte in generale.
Quando inizi a leggere un'opera come Cages, già dalle prime righe ti chiedi se sarai all'altezza di comprenderla. Non perchè le parole siano particolarmente difficili o perchè si parli di argomenti specialistici inaccessibili, ma semplicemente perchè si impatta subito con un'opera d'arte di una profondità dolce e terribile. Un immenso oceano, scuro e misterioso, celato da un'impalcatura ben congeniata che a stento riesce a contenerlo.
Dave Mckean è un'artista a tutto tondo. Ha illustrato fumetti, celebri le collaborazioni con Neil Gaiman e Grant Morrison, ha realizzato copertine per album musicali, illustrazioni per romanzi, cartoni animati, cortometraggi e film. Mckean è un creativo a 360 gradi, uno di quelli che fa fluire il suo spirito artistico estrinsecandolo trasversalmente in una miriade di manifestazioni diverse. Cages, che da molti è considerato il suo capolavoro, dimostra in pieno l'ecletticità e la passione artistica del suo autore.
L'opera ha avuto un'esistenza editoriale parecchio travagliata. Fu pubblicata inizialmente dalla Tundra, poi passò alla Kitchen Sink per poi giungere alla Dark Horse. La Magic Press ha portato in Italia l'opera, traducendola proprio dall'ultima versione Dark Horse corredandola inoltre da nuovo materiale aggiuntivo. Il risultato è un volumone sontuoso, da quasi 500 pagine, che, a mio parere, non può mancare sulla mensola di ogni amante del fumetto o, in generale, dell'arte in tutte le sue forme.
L'opera, come già accennato, è molto complessa, tocca toni metafisici e intimistici, ed è una lettura sicuramente impegnativa. Nonostante questo, come dice Terry Gilliam, sembra avere uno strano potere "ipnotico", che tiene il lettore incollato alle pagine.
Passando alla vicenda, se effettivamente di "vicenda" si può parlare, dopo alcune pagine contenenti brevi poemi dal tono biblico che ricordano alcuni passi della genesi, incontriamo Leo, pittore in crisi, che si trasferisce in un nuovo condominio per ritrovare l'ispirazione. Si scopre presto che il palazzo è popolato da strani individui: La padrona di casa, una vecchia che ripete sempre "cosa?", una ragazza che si interessa di botanica, una donna che aspetta da anni il marito che se ne è andato, un musicista di colore che ha un singolare rapporto con gli oggetti e gli strumenti musicali e infine, Jonathan Rush, uno scrittore ormai fuori dalle scene, che vive rinchiuso in casa con la moglie.
Presto si capisce che costui è senz'altro il personaggio attorno a cui ruota tutto. Jonathan è tormentato da loschi individui che spesso si introducono in casa sua e lo privano degli oggetti che ama.Si intuisce che questo fenomeno a che fare con un libro, "Cages" appunto, che ha suscitato violente controversie. Il motivo sembra essere che l'autore, con quel libro abbia rivelato verità inconcepibili, forse oltre la blasfemia. Al di là di cercare di delimitare un plot narrativo lineare, probabilmente impossibile, l'intreccio di Cages è ampio e articolato. Esso coinvolge una folta schiera di personaggi "comparse" che partecipano con battute e dialoghi fulminei ed enigmatici. Tra le figure più interessanti c'è un timido gatto nero, che sembra una sorta di creatura aliena che sfila tra le vite dei vari personaggi.
Cages è un collage di dialoghi e racconti. Storie, immagini e frasi che si incrociano e si accavallano, dando vita ad una miriade di spunti e parallelismi. Sembra di stare in un sogno. L'aspetto formale dell'opera è sicuramente importantissimo per apprezzare a pieno il suo contenuto. Mc Kean, infatti, utilizza un mix di generi e tecniche narrative differenti: si va dal flusso di coscienza Joyciano ad un postmodernismo di stampo più americano, certe pagine, infatti, ricordano la Trilogia di New York di Paul Auster. Sono presenti inoltre influssi biblici, sopratutto per linguaggio ed ermetismo, ma anche connessioni con la fiaba, il noir, il fantasy, l'allegoria e il mito. Questo pastiche formale è uno strumento perfetto per affrontare tematiche importanti: onnipresente è la riflessione sull'atto creativo. Pittura, musica e scrittura sembrano essere connesse alla genesi divina. L'artista è una specie di dio creatore, che però non partecipando della perfezione divina, si blocca, ha dei ripensamenti, è preda costante dell'insoddisfazione. Inoltre egli, che sembra avere un potere assoluto sulla sua crezione, è immerso in un flusso caotico di eventi e la fruizione della sua opera è qualcosa di incontrollabile. Le reazioni controverse al libro di Jonathan e le persone che lo privano delle cose amate, sembrano esempi proprio della sfuggevole natura della creazione artistica, che come un figlio che viene strappato immediatamente alla madre, cresce e si sviluppa a prescindere dagli intenti e dal senso originario immaginato dall'artista. Forse egli non fa nemmeno in tempo a concepirlo, questo senso.
Le elucubrazioni di McKean si dispiegano attraverso dialoghi, testi di canzoni, stralci di libri, poesie. Un collage frammentario che il lettore deve cercare di riassemblare, creando egli stesso, la sua opera, il suo Cages.
Se quest'opera risulta essere estremamente stratificata nella sceneggiatura, risulta altrettanto valida e complessa dal punto di vista grafico-visivo. McKean, in questo volume , fa poco uso della pittura che lo ha reso famoso e preferisce l'uso assiduo del pennino. Le pagine sono quasi tutte divise con una rigida griglia di 9 vignette, ma cmq certe tavole si aprono ad improvvise variazioni, sia strutturali che stilistiche. Il disegno dell'autore è capace di meraviglie visive davvero notevoli e le sue figure ricordano, in molti esempi, il tratto e i soggetti di Egon Schiele. Pevalgono il bianco e nero e le tonalità grigio-azzurrognole, ma quando meno ce lo si aspetta irrompe il colore, soprattutto nelle sezioni più oniriche e di intuizione "metafisica". Ci sono anche sequenze fotografiche ed elaborazioni digitali. Cages quindi, dal punto di vista visivo, è totalmente ricco e imprevedibile e questo è un elemento che aumenta notevolmente il fascino di un'opera che è una continua interrogazione e ristrutturazione di se stessa e della coscienza del lettore.
Per concludere, credo che sia difficilissimo descrivere questo lavoro di Mckean, la sua importanza è un'esperienza da provare e da vivere. Quello che esce dalle pagine è uno stato mentale, un vortice creativo che ci accoglie con le sue forme in continuo mutamento al di là del significato trasmesso e dell'intreccio. Cages è sempre "in potenza", è come immergersi nelle acque tumultuose di un fiume immaginativo che cambia continuamente il suo corso e il punto dove andrà a sfociare. Consiglio a tutti di dare una possibilità a Cages e di farsi trasportare dai suoi enigmi e dalle sue domande, antiche come
Quando inizi a leggere un'opera come Cages, già dalle prime righe ti chiedi se sarai all'altezza di comprenderla. Non perchè le parole siano particolarmente difficili o perchè si parli di argomenti specialistici inaccessibili, ma semplicemente perchè si impatta subito con un'opera d'arte di una profondità dolce e terribile. Un immenso oceano, scuro e misterioso, celato da un'impalcatura ben congeniata che a stento riesce a contenerlo.
Dave Mckean è un'artista a tutto tondo. Ha illustrato fumetti, celebri le collaborazioni con Neil Gaiman e Grant Morrison, ha realizzato copertine per album musicali, illustrazioni per romanzi, cartoni animati, cortometraggi e film. Mckean è un creativo a 360 gradi, uno di quelli che fa fluire il suo spirito artistico estrinsecandolo trasversalmente in una miriade di manifestazioni diverse. Cages, che da molti è considerato il suo capolavoro, dimostra in pieno l'ecletticità e la passione artistica del suo autore.
L'opera ha avuto un'esistenza editoriale parecchio travagliata. Fu pubblicata inizialmente dalla Tundra, poi passò alla Kitchen Sink per poi giungere alla Dark Horse. La Magic Press ha portato in Italia l'opera, traducendola proprio dall'ultima versione Dark Horse corredandola inoltre da nuovo materiale aggiuntivo. Il risultato è un volumone sontuoso, da quasi 500 pagine, che, a mio parere, non può mancare sulla mensola di ogni amante del fumetto o, in generale, dell'arte in tutte le sue forme.
L'opera, come già accennato, è molto complessa, tocca toni metafisici e intimistici, ed è una lettura sicuramente impegnativa. Nonostante questo, come dice Terry Gilliam, sembra avere uno strano potere "ipnotico", che tiene il lettore incollato alle pagine.
Passando alla vicenda, se effettivamente di "vicenda" si può parlare, dopo alcune pagine contenenti brevi poemi dal tono biblico che ricordano alcuni passi della genesi, incontriamo Leo, pittore in crisi, che si trasferisce in un nuovo condominio per ritrovare l'ispirazione. Si scopre presto che il palazzo è popolato da strani individui: La padrona di casa, una vecchia che ripete sempre "cosa?", una ragazza che si interessa di botanica, una donna che aspetta da anni il marito che se ne è andato, un musicista di colore che ha un singolare rapporto con gli oggetti e gli strumenti musicali e infine, Jonathan Rush, uno scrittore ormai fuori dalle scene, che vive rinchiuso in casa con la moglie.
Presto si capisce che costui è senz'altro il personaggio attorno a cui ruota tutto. Jonathan è tormentato da loschi individui che spesso si introducono in casa sua e lo privano degli oggetti che ama.Si intuisce che questo fenomeno a che fare con un libro, "Cages" appunto, che ha suscitato violente controversie. Il motivo sembra essere che l'autore, con quel libro abbia rivelato verità inconcepibili, forse oltre la blasfemia. Al di là di cercare di delimitare un plot narrativo lineare, probabilmente impossibile, l'intreccio di Cages è ampio e articolato. Esso coinvolge una folta schiera di personaggi "comparse" che partecipano con battute e dialoghi fulminei ed enigmatici. Tra le figure più interessanti c'è un timido gatto nero, che sembra una sorta di creatura aliena che sfila tra le vite dei vari personaggi.
Cages è un collage di dialoghi e racconti. Storie, immagini e frasi che si incrociano e si accavallano, dando vita ad una miriade di spunti e parallelismi. Sembra di stare in un sogno. L'aspetto formale dell'opera è sicuramente importantissimo per apprezzare a pieno il suo contenuto. Mc Kean, infatti, utilizza un mix di generi e tecniche narrative differenti: si va dal flusso di coscienza Joyciano ad un postmodernismo di stampo più americano, certe pagine, infatti, ricordano la Trilogia di New York di Paul Auster. Sono presenti inoltre influssi biblici, sopratutto per linguaggio ed ermetismo, ma anche connessioni con la fiaba, il noir, il fantasy, l'allegoria e il mito. Questo pastiche formale è uno strumento perfetto per affrontare tematiche importanti: onnipresente è la riflessione sull'atto creativo. Pittura, musica e scrittura sembrano essere connesse alla genesi divina. L'artista è una specie di dio creatore, che però non partecipando della perfezione divina, si blocca, ha dei ripensamenti, è preda costante dell'insoddisfazione. Inoltre egli, che sembra avere un potere assoluto sulla sua crezione, è immerso in un flusso caotico di eventi e la fruizione della sua opera è qualcosa di incontrollabile. Le reazioni controverse al libro di Jonathan e le persone che lo privano delle cose amate, sembrano esempi proprio della sfuggevole natura della creazione artistica, che come un figlio che viene strappato immediatamente alla madre, cresce e si sviluppa a prescindere dagli intenti e dal senso originario immaginato dall'artista. Forse egli non fa nemmeno in tempo a concepirlo, questo senso.
Le elucubrazioni di McKean si dispiegano attraverso dialoghi, testi di canzoni, stralci di libri, poesie. Un collage frammentario che il lettore deve cercare di riassemblare, creando egli stesso, la sua opera, il suo Cages.
Se quest'opera risulta essere estremamente stratificata nella sceneggiatura, risulta altrettanto valida e complessa dal punto di vista grafico-visivo. McKean, in questo volume , fa poco uso della pittura che lo ha reso famoso e preferisce l'uso assiduo del pennino. Le pagine sono quasi tutte divise con una rigida griglia di 9 vignette, ma cmq certe tavole si aprono ad improvvise variazioni, sia strutturali che stilistiche. Il disegno dell'autore è capace di meraviglie visive davvero notevoli e le sue figure ricordano, in molti esempi, il tratto e i soggetti di Egon Schiele. Pevalgono il bianco e nero e le tonalità grigio-azzurrognole, ma quando meno ce lo si aspetta irrompe il colore, soprattutto nelle sezioni più oniriche e di intuizione "metafisica". Ci sono anche sequenze fotografiche ed elaborazioni digitali. Cages quindi, dal punto di vista visivo, è totalmente ricco e imprevedibile e questo è un elemento che aumenta notevolmente il fascino di un'opera che è una continua interrogazione e ristrutturazione di se stessa e della coscienza del lettore.
Per concludere, credo che sia difficilissimo descrivere questo lavoro di Mckean, la sua importanza è un'esperienza da provare e da vivere. Quello che esce dalle pagine è uno stato mentale, un vortice creativo che ci accoglie con le sue forme in continuo mutamento al di là del significato trasmesso e dell'intreccio. Cages è sempre "in potenza", è come immergersi nelle acque tumultuose di un fiume immaginativo che cambia continuamente il suo corso e il punto dove andrà a sfociare. Consiglio a tutti di dare una possibilità a Cages e di farsi trasportare dai suoi enigmi e dalle sue domande, antiche come
l'oblio della morte e la nascita primordiale della vita.
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venerdì 6 dicembre 2013
Fumetto e Giornalismo. Un connubio storico
Una brevissima ( ma proprio brevissima) riflessione sul rapporto storico tra fumetto e carta stampata ( per Artspecialday)
16 febbraio 1896. Molti considerano questa data il giorno di
nascita del fumetto contemporaneo.
Niente eroi in calzamaglia, almeno per ora. C’è invece un
bimbo parecchio bruttino, con le orecchie a sventola e i denti in fuori. E’ Yellow
Kid. E’ lui o meglio, il suo pappagallo, il pioniere che si esprime per la
prima volta in un baloon, dando origine allo straordinario mezzo espressivo che
tutti ora conosciamo.
Oltre che per l’interesse storico, Yellow Kid è interessante
per altri motivi. Innanzitutto, apparve per la prima volta sull’inserto
domenicale di un giornale, il New York World, diretto dal mister carta stampata
per eccellenza, Joseph Pulitzer. In seconda battuta Yellow Kid, con il tono
ironico che si addice bene al medium fumettistico, parlava della società
americana, in particolar modo di quella degli immigrati. Il fumetto nasce come
intrattenimento e satira socio-politica
Il potenziale comunicativo dell’unione fra immagini e parole
non era sfuggito a Pulitzer e nemmeno al suo principale concorrente, William
Randolph Hearts, del New York Journal. I due si fronteggiarono arditamente,
proponendo due serie del “bambino giallo” sulle rispettive testate
giornalistiche, fino al termine di entrambe nel 1898.
Fumetto, giornalismo e politica. Tre elementi che fin dalle
origini del fumetto occidentale sembrano stare bene insieme. Sono passati più
di 100 anni da Yellow Kid e il fumetto ha subito una gran quantità di
metamorfosi, eppure questo connubio resta ancora vivo, anzi si è notevolmente
rafforzato.
Da qualche anno, infatti ,abbiamo assistito alla diffusione
prepotente di un’espressione, “graphic journalism”, che sta ad indicare opere
considerate veri e propri reportage giornalistici ad immagini. Il capostipite
di questa particolare corrente è probabilmente Maus, capolavoro di Art
Spielgman, vincitore del premio Pulitzer nel ’92. In Maus viene raccontata la storia di una
famiglia ebrea tra la Polonia degli anni
30, la deportazione ad Auschwitz e la New York degli anni 80. Un racconto
straziante, fatto di documenti e ricordi, di un realismo commovente. Scorrendo gli
anni troviamo innumerevoli esempi degni di nota. Si va, per dirne qualcuno, dalla questione Israelo-palestinese
raccontataci da Joe Sacco in “ Palestina”, alla rivoluzione iraniana in
“Persepolis” di Marjane Satrapi. Passiamo poi ai “Quaderni Ucraini” di Igort,
continuiamo per “Cronache da Gerusalemme” e “Pyonyang” di Guy Delisle, fino ai
reportage ad immagini di Patrick Chapatte sulle affiliazioni e le attività criminali
delle gang guatemalteche. Bisognerebbe citarne tanti altri, ma per motivi di spazio non lo faccio.
Il fumetto è forse il medium più libero e versatile in
circolazione. La sua posizione di eterno outsider rispetto ai principali mezzi
di comunicazione e la sua natura, spesso di intrattenimento e ironica, gli
hanno permesso di indagare e percorrere trasversalmente le varie sfaccettature
del reale.
Le immagini riescono a superare ogni barriera. Le enormi
possibilità simboliche, la sua istantaneità grafica e la capacità di
intrattenere, sono le armi base del fumetto, che riesce a parlarci con
leggerezza di situazioni difficili e complesse. Il successo del graphic journalism è solo un ulteriore segno che ci
rimanda all’estrema efficacia di un medium, che per la sua composizione ibrida
e la sua versatilità espressiva, è capace di adattarsi ad ogni registro e
contenuto.
L’indagine e l’informazione sociopolitica possono
sicuramente trarre vantaggio dall’immediatezza del fumetto e speriamo lo
facciano, il più possibile, in modo genuino e costruttivo. Infatti, per lo
stesso motivo, il fumetto è troppo
prezioso e pericoloso per essere strumentalizzato. Quando questo avviene è come
un fendente, che ci colpisce tutti, perché va a colpire uno dei mezzi più cristallini
e sfuggevoli di estrinsecazione della nostra libertà.
giovedì 5 dicembre 2013
Incontrando Renzo Piano
Una bella chiacchierata con una della archistar più conosciute al mondo
Il 3 Dicembre, in occasione del ciclo di incontri inerenti all'architettura urbana, organizzati dal Politecnico di Milano per il suo centocinquantesimo, i ragazzi del PoliMi e non solo hanno avuto la fortuna di poter assistere ad un incontro con il famoso architetto italiano Renzo Piano.
La scelta del luogo d'incontro è stata già in sè interessante, presso Sesto San Giovanni, nell'area delle ex industrie Falck, sito del progetto in atto dell'architetto toscano, che prevede un'enorme riqualifica urbana di tutta la zona. L'organizzazione dell'evento non è sicuramente stata delle migliori, questo va detto, due ore e mezzo di coda, compressi come sardine per poi entrare in un sito gigantesco dove sinceramente sarebbe stato molto più logico far accomodare i visitatori in coda. Se un architetto della fama di Renzo Piano concede un incontro, certo l'affluenza è assicurata ed è stato veramente un peccato vedere come sotto una vastissima copertura, che non implicava sicuramente problemi di spazio, il palco e le sedie fossero state compresse in una ristrettissima area, prevedendo un esiguo numero di posti a sedere. Tuttavia, a parte questo, come scelta è stata sicuramente azzeccata. Infatti per raggiungere il luogo dell'evento vero e proprio, tutti i visitatori hanno potuto attraversare una buona parte dell'area di progetto. Complice sicuramente il fantastico sole dicembrino, questi giganti metallici, simboli di un passato che ha visto scioperi, manifestazioni, duro lavoro, gioie e dolori, si stagliano in mezzo ad una ricca vegetazione, anche se in questa stagione appare un pò spoglia. Come ha detto subito nella sua introduzione Renzo Piano: "Venendo qui, in questo luogo, ciò che si doveva capire del progetto lo avete già capito", ed è stato proprio così, perchè vivendo quel luogo risulta chiara ed inequivocabile la scelta di mantenere queste gigantesche rovine intatte, così come il tempo ce le consegna.
Il sito della ex Falck occupa un ottavo del suolo di Sesto San Giovanni, era una fabbrica nella città, non qualcosa di nascosto e lontano. Il progetto dello studio di Piano quindi vuole far rivivere questo spazio nella città, reintegrarlo all'interno di Sesto San Giovanni, come quando la fabbrica era in funzione.
Durante il suo intervento ciò su cui l'architetto ha maggiormente posto l'accento sono state proprio le linee generali, l'impronta che è stata data a questa riqualifica, non è voluto scendere nei dettagli. Ha impostato un racconto che esemplifica un modo di fare architettura, di essere progettisti nella contemporaneità. Da ex studente del Politecnico non poteva certamente non porre l'accento sul tema di cosa voglia dire formarsi nelle nostre università oggi, cosa significhi essere creativi e progettisti, cosa implichi definire attraverso il proprio lavoro il futuro della città. Questi sono temi fondamentali, "progettare vuole anche dire fare politica" ha sostenuto l'architetto, giustificando la sua presenza in Senato. Prendere decisioni che coinvolgeranno non solo luoghi, ma anche la vita della persone che li abitano non è certo una cosa da prendere alla leggera! Il progetto "La città della Salute e della Ricerca" in questo senso vuole essere un esempio. Questa enorme area conterrà residenze, edifici commerciali, un ospedale di ricerca ed un enorme parco.
Durante la conferenza non si è potuto certamente non soffermarsi, anche se brevemente, sull'ospedale. La sua progettazione si basa su una forte immedesimazione nel ruolo del paziente e su una serie di studi scientifici. Si prevede quindi un complesso unico tripartito e per la maggior parte interrato. Le sale operatorie, i locali tecnici ecc.. occuperanno i piani interrati. Al piano terra invece l'ospedale vivrà in totale simbiosi con la città e vi verranno collocati quindi quei locali con uso quotidiano per i day hospital, le analisi ecc.. mentre nei tre piani fuori terra verranno collocate le camere per i degenti. Solo tre piani, quindi un'altezza modesta, la stessa degli alberi. Queste camere presenteranno infatti ampie vetrate che permetteranno ai malati di trascorrere il loro tempo e la loro riabilitazione immersi nella natura.
In questo progetto emerge quindi cosa significhi far architettura intelligente, non pensando solo a canoni estetici, ma pensando a chi dovrà vivere quei luoghi per davvero. Questo è fondamentale per non progettare luoghi rigettati dalle comunità, che diventano enormi relitti urbani.
Questi sono naturalmente solo alcuni dei temi ineerenti al progetto in atto trattati dall'architetto toscano. Tuttavia la parte più interessante dell'incontro è stata sicuramente il dibattito. Perchè nel momento delle domande si disvelano un pò tutti gli aspetti di una persona, buoni o cattivi che siano. Alcune risposte mi hanno colpito particolarmente come quella alla domanda: "Come si relaziona alle critiche?". Egli si è mostrato entusiasta, non è da tutti soprattutto se con una fama internazionale, considerare le critiche delle cittadinanza, di altri progettisti o in generale di altre persone come elementi costruttivi che migliorano ed ampiano il proprio progetto. Questo mi ha quasi fatto dimenticare la risposta, a mio parere un pò ipocrita, alla domanda "Considerando il suo successo, ha mai dovuto rinunciare a qualcosa?", sorprendentemente il simpatico Renzo Piano ha risposto "quale successo? Io sono lo stesso di quando ho cominciato! Nella mia vita non ho mai rinunciato a nulla". Devo dire che questa affermazione mi ha fatto un pò stizzire. Direi che è decisamente impossibile che una persona con studi e progetti sparsi per il mondo, il cui nome viene annoverato sui libri universitari e non solo, faccia finta di non sapere di essere una delle archistar più conosciute al mondo, ma prendiamolo come un eccesso di umiltà.
Per concludere un'ultima affermazione mi ha davvero colpita. Essa riguarda il significato di casa, ciò che possiamo considerare tale. Egli ha risposto che casa è il posto in cui progetta, poichè quando devi costruire qualcosa che possa vivere in simbiosi con una città, devi rapportarti a quella città come casa tua. Ha inoltre aggiunto una bella esortazione ai giovani di questo Paese a non abbandonarlo, ma a ritornarvi sempre. Potrebbe sembrare una contraddizione, ma non a mio parere. Negli italiani c'è da sempre questa vena cosmopolita ed un pò girovaga, che li ha portati ad esplorare e viaggiare in luoghi lontani. Questa caratteristica fa parte della nostra tradizione, della nostra cultura, ma bisogna sempre avere un posto a cui tornare, in cui le nostre radici culturali sono francamente salde, poi non importa se abbiamo più di un luogo da chiamare casa.
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martedì 3 dicembre 2013
Aspettando EXPO 2015
Milano EXPO 2015. Una breve panoramica su idee, propositi, ciò che è stato fatto e ciò che ci aspetta
Manca ormai solo un anno e mezzo all'apertura di EXPO 2015. Milano comincia a mostrarne i segni; le bandiere di tutti gli stati partecipanti hanno invaso Corso Vittorio Emanuele ormai da mesi e pian piano assistiamo alla diffusione del logo in varie parti della città. Lo scorso anno abbiamo assistito all'apertura della M5, la prima rete di potenziamento dei mezzi sotteranei milanesi, ma di lavoro da fare ce n'è ancora molto!
Milano è sicuramente una città abituata ad ospitare eventi di tiratura mondiale, basti pensare alla Design Week in primavera e alle due Fashion Week, ma questo rappresenta sicuramente un evento unico, ci sembra quindi opportuno a meno di due anni di distanza spendere qualche parola a riguardo, per scoprire a cosa stiamo andando incontro. Si sente infatti tanto parlare di EXPO, ma sembra che solo gli adetti ai lavori sappiano esattamente ciò che succederà.
Innanzi tutto vorrei fare una breve premessa. L'organizzazione di un Expo, esattamente come quella di Mondiale o delle Olimpiadi costituisce un arma a doppio taglio per l'economia di un Paese. Nella storia di questo evento i casi in cui la Nazione ospitante ne ha ricevuto seri benefici economici non sono la maggioranza. Spesso per far rientrare le spese la manifestazione è stata prorogata, come ad esempio a New York nel 1964, ma anche nel 1939.
In questo senso il masterplane proposto per EXPO 2015 è decisamente interessante. Queste manifestazioni diventano un benefit nel momento in cui prevedono non solo la costruzione di una cittadella ideale, consumistica e fine a se stessa destinata a nascere e morire nel corso di 6 mesi lasciando dietro di sè una serie di relitti ed ambienti in degrado. Basti pensare al sito fieristico costruito a New York e trasformato in un enorme parco abitato solo da mostri degradati, relitti di costruzioni in disuso. EXPO diviene una risorsa quando il progetto entra in simbiosi con la città e non si limita ad una tempistica finita di 6 mesi, ma progetta e prevede un intelligente piano post EXPO. In questo senso appunto il masterplane è davvero azzeccato. Si prevede la costruzione di una sorta di piattaforma attrezzata sulla quale sorgeranno padiglioni temporanei (da smontare al termine della manifestazione). Questa tuttavia rimarrà e potrà essere adibita successivamente ad altri eventi. La progettazione del sito inoltre si inserisce in un progetto più ampio di bonifica della zona nord ovest della città di Milano, del Naviglio Grande e della Darsena.
Il progetto, Vie d'Acqua a Milano, prevede quindi un intervento permanente di riqualifica e la creazione di un nuovo collegamento fluviario tra il canale Villoresi, a nord di Milano, ed il Naviglio Grande. (video del progetto di bonifica). Su questo nuovo tratto si insedierà il sito previsto, un'isola circondata da canali d'acqua. L'utilizzo dell'acqua non costituisce una scelta meramente estetica ma anche funzionale, in primo luogo per l'approvvigionamento d'acqua agli stand ed in secondo luogo permette nei mesi più caldi estivi di mitigare il clima del sito espositivo. La disposizione interna prevede due assi principali, un cardo ed un decumano. Lungo questi si svilupperanno i padiglioni nazionali, raggruppati in cluster tematici, questa scelta ritengo sia decisamente interessante ed innovativa.
Attraverso un workshop sono state scelte delle tematiche collegate al tema principale: feed the world, energy for life. Le nazioni dovranno quindi declinare le varie tematiche attraverso la propria cultura. Sul sito si può già trovare l'elenco e le linee generali di progetto previste per la zona, altra innovazione portata da questa scelta è quella di prevedere degli spazi comuni in queste aree destinati ad accogliere eventi comuni, istallazioni ecc.. Volti ad approfondire la tematica. Questi piccoli villaggi che vengono quindi a crearsi all'interno del sito, mirano ad esplorare particolari e specifiche catene alimentari o tematiche di rilevanza globale. Subito ha colto il mio interesse il cluster dedicato all'Agricoltura e Nutrizione delle zone aride. Questa, infatti, rappresenta una tematica importante ed estremamente attuale, soprattutto in relazione ai cambiamenti climatici a cui stiamo assistendo. Verrà inoltre trattata da Paesi che sono in qualche modo maggiormente chiamati in causa e che si sono già da tempo potuti confrontare con le difficoltà che queste situazioni comportano. (Botswana, Chad, Eritrea, Giordania, Mauritania, Mongolia, Nigeria, Autorità Nazionale Palestinese, Senegal, Tajikistan).
Lungo il Cardo invece si svilupperanno il Palazzo Italia, il padiglione Italia e le esposizioni nazionali. Inoltre nell'estremo nord di quest'ultimo sorgerà la Piazza d'Acqua alimentata dal canale d'acqua che circonda tutto il sito. Attorno a questo bacino d'acqua sorgeranno una serie di gradinate, rendendolo un teatro acquatico, decisamente suggestivo, volto ad ospitare spettacoli pirotecnici, fuori d'artificio e concerti su piattaforme galleggianti.
Oltre a questo sono previsti una serie di spazi adibiti a spettacoli, esposizioni e conferenze, dislocati in differenti aree del sito. Inoltre nella zona nord-orientale sarà previsto il Parco della BioDiversità, un giardino di 14000 mq, volto a riprodurre la varietà della vita in un paesaggio multiforme molto suggestivo e coinvolgente.
Padiglione Zero, progettato dallo studio di Michele De Lucchi, occuperà l'area d'ingresso al sito. Ho avuto il piacere di vedere i modelli del progetto all'interno dello studio milanese dell'architetto. Esso costituisce il vero trampolino di lancio dell'esposizione, attraverso un linguaggio fortemente scenografico la curiosità dei visitatori verrà stimolata, immergendolo in uno stato di continua ricerca e stupore che caratterizza tutto il masterplane ed i singoli padiglioni.
Questa rappresenta solo una breve panoramica di quello che sarà, o meglio dovrebbe essere, Milano 2015. Gli spazi previsti per il pubblico sono molteplici e tutti i padiglioni progettati meriterebbero davvero di essere approfonditi, così come le aree dedicate al cibo del futuro ed al rapporto con esso. Così tanto è già stato pensato, progettato e previsto, ma poco è stato realizzato. Durante questo 2013 abbiamo certamente assistito ad una serie di eventi che hanno cercato di informare la cittadinanza, giusto per citarne uno estremamente recente, il 22-23-24 Novembre, all'interno dell'evento Bookcity, si sono tenuti una serie di incontri sul tema, nella splendida cornice del padiglione Agorà, progettato da Michele De Lucchi. Ma per i più rimane un mistero.
A mio parere i presupposti dell'EXPO che verrà sono ottimi, un sito totalmente reversibile, un tema interessante ed una serie di progetti a lungo termine che promettono di non lasciare carcasse decadenti al termine dell'evento. Tuttavia la bontà di un progetto e la forza delle idee non bastano da sole a far funzionare una manifestazione che nasconde e cela una miriade di implicazioni socio-economiche. Le belle idee, i buoni presupposti devono diventare realtà seguendo i criteri di qualità e tempestività, perchè tutto possa funzionare.
L'EXPO 2015 rappresenta sicuramente una grande opportunità per l'Italia, per riaffermare se stessa, per trasmettere nel mondo quella cultura nazionale che è profondamente legata al mangiare sano, al vivere bene ed anche al buon design!
Per saperne di più:
http://www.expo2015.org/il-tema/masterplan
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lunedì 2 dicembre 2013
Se Carver leggesse Essex County. Una riflessione
“Mi sentii come colpito all’improvviso da un fulmine durante
una tranquilla passeggiata, in un pomeriggio assolato, sereno.” In questo modo,
Haruki Murakami, descrive la sua reazione alla prima lettura di un racconto di Raymond
Carver. Uno shock, calato nella vita quotidiana.
Attimi, immagini, frammenti di tempo. Scorci particolari di
esistenze comuni, le nostre, che definiremmo senza indugi noiose. Di Carver ho
letto “Cattedrale” e “Principianti” e, come Murakami, ne sono rimasto
folgorato. La sua capacità di introdurre il lettore in medias res nelle vite di persone comuni è qualcosa di incredibile. Non
c’è niente di straordinario, non ci sono momenti di stasi e tensione emotiva,
non c’è nessuna esplosione finale. Nessun racconto ha una fine e un inizio. Qui
si parla di frammenti, tasselli che compongono il mosaico vitale in cui siamo
immersi.
La grandezza di Carver sta proprio in questo: voler
registrare ogni gesto, ogni pensiero, ogni azione, anche quella più apparentemente
insignificante. Ci vuole un’estrema consapevolezza di ciò che ci circonda per
scrivere così, perché è proprio in queste istantanee che si nasconde il senso
di tutto. La causa di ogni cambiamento, non è che un precipitato per
accumulazione di una serie infinita di momenti quotidiani. Carver questo lo ha
capito ed è per questo che ci emoziona e ci lascia l’amaro in bocca.
Come nel realismo pittorico di Edward Hopper, l’America di
Carver è quella lontana dai grattacieli e dal sogno americano. Il “Carver Country”
è solitudine e silenzio. E’ quel luogo popolato da persone umili, che vivono le
piccole tragedie familiari e quotidiane, che sbagliano e cercano di tirare
avanti. “Brava gente, gente che ce la mette tutta”
Il nostro presente è frammentario. I problemi sono quelli
comuni. I nostri vizi e le nostre debolezze si misurano nel quotidiano.
Lo stile e l’occhio alla Carver sono strumenti efficaci per
descrivere il nostro tempo e altri medium, oltre a quello letterario, se ne
sono serviti. Pensiamo a Robert Altman e al suo “America Oggi”, vero e proprio
“minestrone Carveriano”, che ha vinto al Festival Di Venezia nel ’93. Le
immagini sono più immediate delle parole, asciugano la narrazione all’osso e ci
presentano scorci esistenziali secchi e cristallini. Il cinema, l’arte
dell’immagine in movimento, lo ha sicuramente capito. Così come un altro medium
che fa del connubio immagine-parola il suo punto di forza: il fumetto.
Mi viene in mente, ad esempio, il bellissimo “Essex County”
di Jeff Lemire. Le vicende partono da eventi innocui e sconnessi, inserendo il
lettore in storie apparentemente prive di ogni rilevanza ma che, nel quadro
complessivo, alimentano un collage esistenziale tutto radicato nel freddo
terreno della contea di Essex, in Ontario. Oppure “Local” di Brian Wood, dove
dodici storie collegate dal personaggio di Megan Mc Keegan, ci regalano
altrettante cartoline di città del Nord America. Ancora più dichiaratamente Carveriano,
troviamo Adrian Tomine, che con volumi come “Sonnambulo e altre storie” o “Una
lieve imperfezione”, attraverso un nitore grafico e grande leggibilità ,declina
a fumetti un minimalismo narrativo emotivamente devastante.
L’immagine riesce a parlarci del silenzio. Ci lascia
attoniti davanti ad essa, facendoci partecipi dei suoi particolari, di tutte
quelle piccole tensioni insite in un azione o in uno sguardo che nel movimento
frenetico passano inosservate.
Il fumetto, narrazione per immagini e parole, è quindi un ottimo
mezzo per rappresentare “quanto l’esistenza collettiva sia fatta di piccoli
segmenti che si divorano gli uni con gli altri, un’esistenza dispersa e
polverizzata, e, per questo, feroce e disperatissima”.
Se Carver potesse leggere Essex County, invidierebbe Lemire.
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