venerdì 28 marzo 2014

Siete solo invidiosi del mio zaino a razzo. Le strisce di Tom Gauld


Sono venuto a conoscenza di Tom Gauld qualche tempo fa imbattendomi, per caso, in una vignetta condivisa su Facebook da uno dei miei contatti. Un incontro casuale con un’immagine, qualcosa che, nell’epoca dei social e dell’estrema viralità dei contenuti, ci accade continuamente e che, come altrettanto spesso succede, si trasforma spesso in qualcosa di più di una ricondivisione o un passivo “like”.
Con Gauld è stato amore a prima vista. Ovviamente non sapevo ancora chi fosse quando ho visto l’immagine, ma ho immediatamente pensato che chiunque l’avesse realizzata fosse un genio.
Stile minimale e accattivante. Un omino sulla parte destra che vola con un jetpack dal design quanto mai infantile e amatoriale esclamando “Siete solo invidiosi del mio zaino a razzo”, mentre, in basso sulla parte sinistra, tre omini dall’aria triste guardano in basso, bofonchiano qualcosa. Letteratura di fantascienza e letteratura seria. Con una sola immagine, diretta come uno spot pubblicitario, prettamente inglese nella sua ironia e pungente quanto basta, viene riassunta la capacità della letteratura di fantascienza di liberarsi dalle briglie della tradizione per creare mondi fantastici e, nello stesso tempo, viene sbeffeggiato tutto il popolo di scrittori, lettori e pseudoletterati snobboni che la fantascienza non la considerano nemmeno. Sul mio viso si è subito disegnato un sorriso di approvazione. Geniale.



A questo punto approfondire su chi fosse l’autore era qualcosa di obbligatorio. Scoprii presto che si trattava del nostro Tom Gauld e, dopo aver fatto un po’ di ricerche, ricordo che non riuscivo a capacitarmi di come avessi fatto a non fare prima la sua conoscenza. Infatti, il signore in questione, scozzese, classe 1976, da oltre otto anni realizza ogni settimana una striscia per l’inserto Saturday Review del Guardian, il quotidiano più importante d’Inghilterra. Andando sul suo sito, ho fatto scorrere il suo portfolio e ho trovato le sue creazioni di un acutezza e di un efficacia davvero straordinari.
Dal cinema ai videogiochi, dalla letteratura di genere alle opere classiche, dalla società alla politica, dalla musica alla religione: nessun tema può sfuggire al sottilissimo sarcasmo british del fumettista scozzese. Concisa, educativa, a tratti nichilista, variegato mix di piani e tradizioni culturali diverse, l’opera di Gauld , si inserisce a pieno tra i migliori esempi di commistione creativa in salsa pop. E’ così, dunque, che leggendo le sue vignette ci imbattiamo in Tom Waits, piuttosto che in Jane Austen, James Joyce o Martin  Amis, ma anche in Batman, Frankestein, Robots di ogni tipo, Chtulu o dinosauri . C’è tutto quello che una striscia contemporanea dovrebbe avere, sia dal punto di vista dei contenuti che dell’immaginario richiamato. Si mischiano gli ambiti e i riferimenti, si gioca con gli stereotipi e il non sense.

Finalmente, grazie a Isbn Edizioni, una parte delle creazioni di Tom Gauld sono approdate in Italia, raccolte in un volume dal titolo Siete solo invidiosi del mio zaino a razzo, uscito lo scorso 13 Marzo, che seleziona alcune delle strisce uscite sul Guardian.
Consiglio a tutti di visitare il suo sito per rendersi conto dell’intelligenza e della creatività della sua produzione, sperando vivamente che sia un colpo di fulmine come lo è stato per me.

La Bonelli si ridesta con Lukas




Negli ultimi sei mesi, la Sergio Bonelli Editore, ha fatto parlare di se soprattutto per Orfani, serie a fumetti creata da Roberto Recchioni ed Emiliano Mammuccari e arrivata, ormai, al suo sesto numero. Orfani  ha certamente rappresentato un evento mediatico dirompente. Essa, infatti, oltre ad essere la prima serie interamente a colori della casa editrice milanese, è stata presentata come una vera e propria svolta nel panorama del fumetto italiano da edicola. Sulla natura di questa svolta l’opinione pubblica e la critica si sono, ovviamente, spaccate in due. C’è chi crede che la serie, con la sua fantascienza “leggera”, il suo taglio fortemente cinematografico, la sua spiccata dinamicità narrativa e d’azione e il suo costante richiamo all’universo videoludico, rappresenti un prodotto di qualità, capace davvero di portare una boccata d’aria fresca ad una proposta ormai impantanata da troppo tempo sugli stessi temi. C’è chi, invece, ha arricciato il naso, denunciando la mancata rivoluzione e la mediocrità del lavoro. Su questo frangente io ho le idee abbastanza chiare: ho preso tutti e sei i numeri di Orfani e, pur non credendo assolutamente che sia un capolavoro né un instant cult, l’ho trovato un fumetto di buona qualità che ha saputo intrattenermi e coinvolgermi a dovere. Non so quale sia  la svolta che ci si attendeva, ma, considerato il formato e il target a cui si rivolge il  progetto, credo che Orfani sia un buon tentativo di smuovere le cose. Orfani e giudizi personali a parte, è chiaro che la Bonelli stia cercando di imboccare la via del cambiamento e per farlo non si affidi solo ai lavori e alle parole di Recchioni, ma anche all’ideazione di nuovi progetti e al lancio di nuove pubblicazioni.
Proprio da questo punto di vista, pochi giorni fa (21 Marzo), è uscita in tutte le edicole una nuova serie intitolata Lukas, disegnata da Michele Benevento e sceneggiata da Michele Medda. Se in Orfani a farla da padrone sono le atmosfere fantascientifiche rese con colori brillanti dal grande impatto percettivo, con Lukas torniamo ad un avvolgente bianco e nero che delinea un cupo scenario urban fantasy.
In una città buia e caotica, non distante dagli scenari di una metropoli contemporanea, si trova a vagare Lukas, un “ridestato”, una sorta di zombie cosciente, un non-morto, mentalmente lucido come un vampiro e fisiologicamente affamato di carne umana. Lukas, dopo essersi improvvisamente risvegliato da una tomba, non ricorda nulla di come ci sia finito dentro ed inizia, così, a muovere passi improvvisati nelle vie cittadine in cerca di risposte. Il suo percorso si incrocerà molto presto con quello di altri personaggi dando luogo ad una serie di eventi che permetteranno l’introduzione di individui in qualche modo coinvolti con il suo passato.

Della trama non si può dire molto altro. Questo primo numero, infatti, si presenta come una sorta di introduzione sul personaggio protagonista, un essere che si muove nel mondo come uno straniero dall’ontologia ambigua in cerca di indizi che possano far luce sulla sua identità. Siamo sicuramente di fronte ad un albo che punta ad incuriosire, dando appuntamento ai lettori alle uscite successive e, per questo, risulta praticamente impossibile e prematuro esprimersi in un giudizio sulla trama.
Quello che però si può dire è che, nonostante il contenuto prettamente “fantasy-horror” del lavoro, sia la narrazione sia i disegni puntano ad un estremo realismo. Le illustrazioni di Benevento presentano scenari urbani animati, brulicanti di persone e particolari. Ho trovato l’atmosfera simile a quella che si può trovare in certi film di Carpenter, dove in uno spazio che sembra del tutto reale e simile al nostro, si scatena l’orrore di qualcosa che sembra appartenere ad un’altra dimensione. Medda, invece, si affida a dialoghi semplici e scorrevoli oltre a fare un uso massiccio di didascalie in terza persona, quasi una voce narrante che accompagna Lukas nelle sue peregrinazioni, descrivendo i suoi pensieri e gli ambienti che attraversa. Su questa soluzione dello sceneggiatore ho letto parecchie critiche. Esprimendo un parere prettamente personale, io ho trovato questa scelta  tutto sommato efficace. E’ vero che il fumetto si avvale di una forte componente visuale e molte sensazioni dovrebbe cercare di esprimerle attraverso le immagini, mentre, le didascalie in terza persona, danno al tutto un’aria  romanzesca, tuttavia, credo che comunicano bene l’effetto di straniamento del protagonista. Quindi, non lo vedo assolutamente come un problema.
Lukas, come impostazione e temi proposti, non è sicuramente nulla di innovativo. Tuttavia, a mio avviso, grazie alla fortissima tendenza al realismo dei due autori, mixata ad un immaginario horror che per certi versi si discosta dagli stilemi più classici del genere, può essere considerato un lavoro discretamente interessante, anche se, dato il taglio “da serie tv”, bisognerà aspettare le successive “puntate” per farsene un’idea più precisa.

Peanuts al cinema nel 2015




Charlie Brown, Snoopy, Lucy, Piperita Patty, Schroeder, Woodstock. Un manipolo di nomi che per tutti porta ad una sola leggendaria creazione. Peanuts ,di Charles M. Schulz, è stata una delle strisce illustrate più famose e influenti della storia dei fumetti. Oltre 2600 giornali l’hanno ospitata sulle proprie pagine, è stata pubblicata in 75 paesi del mondo, raggiungendo un bacino  355 milioni di lettori, ed è stata tradotta in 21 lingue diverse. In Italia è stata pubblicata dalla rivista mensile Linus e giornalmente dal quotidiano online Il Post.
Le “personcine” ( così si chiamava inizialmente il fumetto) di Schulz sono comparse sulla carta stampata e, successivamente, sugli schermi dei computer per metà secolo, dalla loro prima apparizione avvenuta in un ormai lontano 2 Ottobre 1950, fino al 13 febbraio del 2000, giorno successivo alla morte del loro autore. Con il suo stile grafico semplice, pulito, quasi stilizzato e le sue battute sempre pungenti, Schulz, riuscì a spaziare su ogni tema con grande efficacia ironica e critica. Peanuts è stata un’opera notevolissima dal punto di vista della critica sociale, soprattutto se rapportato agli altri fumetti degli anni ’60 e 70’ e ha inaugurato un nuovo modo di intendere la striscia fumettistica, aprendo la strada alle successive celebri creazioni degli anni ’80, una per tutte, Calvin e Hobbes di Bill Watterson.
Al contrario di quest’ultima, che deve la sua fama unicamente alle pubblicazioni originali sui giornali e alle raccolte autorizzate dal suo autore, i Penauts sono stati protagonisti di un’ intensiva opera di merchandising favorita da Schulz con la cessione di licenze d’uso per le immagini. Cartoni animati, magliette, oggetti, gadget, poster, tazze e chi ne ha più ne metta. I personaggi dei Peanuts sono apparsi dappertutto facendo la fortuna economica del loro autore e diventando tra le icone popolari più diffuse e popolari di sempre.
Data dunque la popolarità  mediatica dei Penauts e considerando il dialogo quanto mai attivo tra cinema e mondo fumettistico, quello che ci sorprende, è non aver ancora visto Charlie Brown e compagni sbarcare sul grande schermo. Ad eliminare questa perplessità ci ha pensato negli scorsi giorni la Fox Family Entertainment, che, con una mossa del tutto inaspettata, ha diramato il primo teaser di quello che sarà il primo film animato dei Peanuts in 3D, che a Novembre 2015 in occasione del 65°anno di vita del fumetto.
Il film sarà realizzato dai Blue Skies studios ( L’era glaciale, Rio), la regia sarà affidata a Steve Martino, mentre alla sceneggiatura ci saranno Craig e Brian Schulz, rispettivamente figlio e nipote  di Mr. Schulz, che sono anche i produttori del progetto.
Da tempo trapelavano voci sull’intenzione della Fox di creare un lungometraggio d’animazione sui Peanuts, ma queste voci, fino ad ora, non avevano mai raggiunto un adeguato livello di concretezza. Tra le cause di questa incertezza è sicuramente da annoverare l’enorme prudenza della famiglia Schulz nel proteggere la creazione di Charles, muovendosi quindi molto cautamente di fronte ad ogni proposta che comportasse l’utilizzo dei personaggi. Non ha caso, dalle prime dichiarazioni di Craig Schulz si evince di come il processo che ha portato all’annuncio del film sia stato molto complicato e ricco di variabili da definire a partire, certamente, dalla scelta di una tecnologia di realizzazione adatta alla trasposizione cinematografica dei Penauts e alla delineazione di una sceneggiatura che rispetti lo spirito dell’opera originale.

Dalle prime immagini che ho potuto vedere dal teaser devo ammettere che, nonostante la mia perplessità inziale al riguardo, la scelta di fondere personaggi in 3D ed espressioni facciali disegnate tradizionalmente rende le figure molto simili a quelle della versione cartacea, aggiungendo vi inoltre, grazie alla tenue colorazione pastello, notevole espressività. Tecnicamente dunque, almeno dai primi spunti offerti dal breve video rilasciato, mi sembra un lavoro che avrà tutte le carte in regola per essere visivamente un piacere per gli occhi.
Per informazione più dettagliate sulla sceneggiatura  e sull’opera completa dovremo ancora aspettare. Tuttavia, quello che spero, è che essendo coinvolti in prima persona esponenti della famiglia di Schulz, il film non assuma puramente i connotati di una trovata commerciale in occasione dell’anniversario, ma, come dichiarato negli intenti, cerchi di essere un lavoro impegnato a catturare la filosofia delle strisce originali, caricandole di nuove valenze estetiche grazie alle ottime risorse tecniche messe in campo.

venerdì 21 marzo 2014

Ghost in the Shell. Il cyberpunk prima di Matrix





“Quando lo vedemmo per la prima volta nel 1995 dicemmo: lo faremo diventare un film con attori in carne ed ossa”. Quasi vent’anni fa, Andy e Lana Wachowski, esprimendosi con queste parole, anticipavano quello che forse sarebbe stato Matrix, il loro più celebre film. Tuttavia, quella frase, che incubava in sé i germi creativi di uno di uno dei capolavori della fantascienza contemporanea, si riferiva ad un altro film. Un film che era senza “attori in carne ed ossa”, perché si trattava di un cartone animato. Era il 1995 e l’animazione giapponese colpiva di nuovo nel segno: usciva Ghost in the Shell, di Mamoru Oshii.
In un futuro ormai prossimo le reti informatiche permeano tutto. La tecnologia è penetrata nei processi più intimi dell’essere umano, la comunicazione passa per le menti, i corpi sono gusci e i software sono così avanzate da diventare “anime”( ghost). L’ibridazione uomo- macchina ha raggiunto livelli altissimi, portando ad una ridefinizione completa dei generi e delle identità. La compenetrazione informatica nel tessuto biologico è talmente avanzata, che tutti gli esseri viventi ibridati potrebbero essere vittime di Hacking. Si è resa dunque necessaria l’istituzione di un dipartimento di polizia speciale, la sezione 9, adibita al terrorismo e ai crimini informatici. Il maggiore Motoko Kusanagi fa parte di questo reparto. Essa è un cyborg dal corpo femminile interamente cibernetico, costantemente connesso. Un guscio che contiene un ghost, che pur essendo lontano da misticismi, genera dubbi esistenziali quasi umani: «Vi sono innumerevoli elementi che formano il corpo e la mente degli esseri umani come innumerevoli sono i componenti che fanno di me un individuo, con la mia propria personalità. Certo, ho una faccia e una voce che mi distinguono da tutti gli altri, ma i miei pensieri e i miei ricordi appartengono unicamente a me e ho consapevolezza del mio destino. Ognuna di queste cose non è che una piccola parte del tutto. Io raccolgo dati che uso a modo mio e questo crea un miscuglio che mi dà forma come individuo e da cui emerge la mia coscienza. Mi sento prigioniera, libera di espandermi solo entro confini prestabiliti»
Quando sulla scena comparirà “Il Burattinaio”, formidabile Hacker capace di violare la mente delle sue vittime al punto da manipolarne la volontà e i sentimenti, per Motoko inizierà una caccia “all’uomo” (anche se non di uomo si tratta), che la porterà ad  affrontare le controverse questioni relative alla sua ambigua natura di cyborg.


Ci sono opere che riscrivono immediatamente i canoni di un genere. Ghost in the shell è stato questo per la fantascienza e, in particolare, per uno dei suoi filoni tematici e stilistici più importanti degli ultimi decenni: il cyberpunk. Soltanto sette anni dopo Akira di Katsuhiro Otomo, anime che aveva rivoluzionato la fantascienza  apocalittica e distopica d’animazione, Mamoru Oshii, partendo dall’omonimo manga di Masamune Shirow, decide di inserirsi nel percorso teorico delineato da autori letterari come William Gibson e Bruce Sterling a metà degli anni ottanta, declinando le loro idee e le loro immagini in una pellicola d’animazione dall’impatto visivo devastante.
Presentato al Festival di Venezia del ’96( il primo anime della storia a ricevere questo trattamento) è subito adorato da Quentin Tarantino e venerato dai già citati fratelli Wachowski, che lo saccheggeranno a piene mani per realizzare Matrix (1997). Da esso, infatti, prenderanno in prestito il famoso codice verde a cascata, gli “spinotti” inseriti nel collo dei personaggi, oltre che gran parte dell’atmosfera e dei temi generali. Ghost in the Shell è una vera e propria bomba. Troppo intellettuale per un successo commerciale e coccolato da cinefili di tutto il mondo, si imporrà subito come un cult di genere che influenzerà ogni produzione fantascientifica successiva.
Al film del 1995, di cui abbiamo parlato, ne è seguito un altro, Ghost in the shell Innocence (2008), che mette in scena nuovamente l’universo cyberpunk del primo episodio, questa volta senza più Motoko, data per dispersa, ma con protagonista Batou, ex collega della protagonista del primo episodio. Egli dovrà indagare su una serie di omicidi commessi da “androidi prostitute” (genoyd) che forse stanno sviluppando una coscienza. Anche in questo capitolo riflessioni filosofiche, psicologiche ed esistenziali si fondono con gli elementi più cari alla tradizione cyberpunk, andando a riempire un lavoro visivamente impressionante che mischia animazione in 2D e computer grafica in 3D.



Questi due primi episodi della serie sono stati riproposti dalla Nexo Digital in versione restaurata  l’11 e il 12 Marzo nelle sale italiane, con una maratona notturna che ha inaugurato la  sua “stagione anime” . Le buone notizie per i fan di Ghost in the Shell , tuttavia, non finiscono qui. Infatti, il 2 Aprile, arriverà in Italia l’attesissimo e inedito prequel della saga, Ghost in the Shell Arise, un’ottima occasione per riprendere confidenza con quest’opera, ormai leggendaria, e prepararsi a conoscere gli avvenimenti che portarono alla vicenda del primo capitolo. La mia curiosità è altissima e spero che questo nuovo episodio sia all’altezza dei precedenti. Individualità, spazio, tempo e identità sono concetti che vanno continuamente reinterpretati alla luce dei cambiamenti tecnici e storici. Ghost in the Shell ci mostra questa necessità, come solo la miglior fantascienza riesce a fare.

giovedì 20 marzo 2014

Boomstick Award 2014



Noi di Philartedesign siamo stati nominati tra i vincitori del Boomstick Award (premio creato da Bolla, signore e padrone del blog Book and Negative) dal grande Orlando Furioso, amico, maestro e autore insostituibile di quel blog indispensabile che è Fumetti di Carta che vi invitiamo assolutamente a visitare perchè c'è un sacco di roba davvero figa, Orlando ne sa a pacchi e scrive benissimo.....Quindi... cosa aspettate?? lasciate questo blog, andate a trovare Orlando e il suo blog diventerà una vostra lettura fissa, ne sono certo!;)

Il caro Orlando ci ha nominati con questa motivazione:

"perché è un blog pieno, pieno di cose… fumetti, arte, architettura, vita… Ad una enorme passione per la cultura, che sia “alta” o “pop” poco importa, è unita una conoscenza e una capacità di scrittura invidiabile e dalla fruizione piacevolissima!"

Siamo orgogliosi di aver ricevuto questo premio, con queste motivazioni, da un autore che stimiamo tantissimo e che, grazie ai suoi consigli e commenti in materia di fumetti, ci ha sempre permesso di scoprire opere interessantissime, che spesso non conoscevamo o ci eravamo nettamente persi. Inoltre lo ringraziamo per il supporto costante al nostro blog e per i suoi commenti sempre costruttivi e puntuali;)

Dopo aver ringraziato adeguatamente Orlando passiamo al copia-incolla delle regole del Boomstick Award:

“Il Boomstick Award è un premio per soli vincenti, per di più orgogliosi di esserlo. Tutto qua.
Come si assegna il Boomstick? Non si assegna per meriti. I meriti non c’entrano, in queste storie. (cit.).
Si assegna per pretesti. O scuse, se preferite. In ciò essendo identico a tutti quei desolanti premi ufficiali che s’illudono di valere qualcosa.
Il Boomstick Award possiede, quindi, il valore che voi attribuite a esso. Nulla di più, nulla di meno.
Ecco il banner dell’edizione 2014:


boomstickaward2014

Per conferirlo, è assolutamente necessario seguire queste semplici e inviolabili regole:

1 - i premiati sono 7. Non uno di più, non uno di meno. Non sono previste menzioni d’onore

2 – i post con cui viene presentato il premio non devono contenere giustificazioni di sorta da parte del premiante riservate agli esclusi a mo’ di consolazione

3 – i premi vanno motivati. Non occorre una tesi di laurea. È sufficiente addurre un pretesto
A cui aggiungo una quarta regola, ché l’anno scorso me le hanno fatte girare:

4 – è vietato riscrivere le regole. Dovete limitarvi a copiarle, così come Hell le ha concepite.

I vincitori possono a loro volta assegnare il premio ad altri 7 blogger, ma non arrogarsi la paternità del banner e del premio, quella è mia, quindi gradirei essere citato nell’articolo.
L’assegnazione del premio deve rispettare le 4 semplici regole sopra esposte. Qualora una di esse venga disattesa, il Boomstick Award sarà annullato d’ufficio, su questo blog, e in sostituzione, verrà assegnato il:


bitchplease2014


che, al contrario, porta grande sfiga e disonore sul malcapitato.”.

Passiamo dunque ora alle nostre premiazioni con l'elenco dei blog che nominamo vincitori ( in ordine totalmente sparso) :


Perchè ha un nome strafigo.
Perchè si parla di un sacco di fumetti interessanti, con grande competenza e passione
Perchè Domenico Pugliese è il collega digitale che tutti vorrebbero avere
Perchè Multiverso d'Inchiostro ci ha sempre sostenuti, dandoci ottime opportunità di dialogo e condivisione delle comuni passioni.


Perchè ci trovate tantissima roba: fumetti, libri, film, cartoni animati, immagini. Il tutto è commentato e descritto magistralmente da Dario, che con grande competenza e passione sforna sempre articoli molto interessanti.


Perchè è, semplicemente, uno dei nostri blog preferiti. Cinema, serie tv, pop culture il tutto affrontato con competenza e pungente ironia. Indispensabile.


Perchè Ford scrive benissimo, adoriamo le sue recensioni e abbiamo spesso gli stessi gusti in fatto di cinema.

Perchè quando l'ho scoperto mi piaceva già dal titolo. Cinema, libri, musica, con un'attenzione particolare anche all'animazione. Un ottimo blog.


Perchè si parla di tantissime cose che ci interessano, dai fumetti, ai videogiochi, agli anime, ai cartoni...sempre dettagliatamente e con grande competenza. Inoltre MarcoGrandeArbitroGiorgio è sempre stato tra i commentatori più attivi sul nostro blog. Quindi uno speciale ringraziamento era doveroso.


Perchè Poison scrive davvero bene, spesso abbiamo gusti molto simili in fatto di cinema e nei suoi post parla di film senza mai essere spocchiosa, proprio come farei io con un amico al bar, pur mantenendo un'ottima competenza. Inoltre, dalla lettura del suo blog, vengo sempre a conoscenza di cose molto interessanti.









lunedì 17 marzo 2014

Da Dylan a Don Draper. I poster di Milton Glaser




Prendete uno dei più importanti grafici contemporanei, Milton Glaser, mettetelo insieme a Mad Men, una delle migliori serie tv in circolazione e agitate per bene. Il risultato di questo cocktail micidiale, manco a dirlo, non potrà che essere una locandina pubblicitaria devastante.
Ebbene si, Milton Glaser, l’inventore del logo I Love New York che spopola su milioni di magliette, del logo DC Bullet, utilizzato dalla Dc Comics dal ’77 al 2005 e dello storico poster del Greatist Hits di Bob Dylan del ’67, ha realizzato la locandina per la settima (e ultima?) serie di Mad Men, che debutterà il prossimo 13 Aprile per la rete americana AMC.
Colori acidi, linee morbide e motivi floreali. Un groviglio sinuoso di onde cromatiche che vanno a delineare un profilo greco di donna, con gli occhi chiusi, davanti ad un fluttuante bicchiere di vino. L’Art nouveau incontra l’atmosfera lisergica e psichedelica della fine degli anni sessanta. L’impatto visivo è accecante.
Sopra questo tripudio di forme e colori, nella parte alta della locandina, si staglia la scritta “Mad Men”, con il caratteristico font squadrato e la contrapposizione tra bianco e rosso. Nella parte inferiore, invece, ecco apparire l’immagine che identifica la serie: la sagoma di Don Draper, in rigoroso bianco e nero, con il braccio appoggiato allo schienale della poltrona e la mano che mollemente sostiene l’immancabile sigaretta. Un ritorno a casa. Una sicurezza per riprendersi dal trip percettivo della parte centrale.
Come nel famoso manifesto del ’67 dedicato al menestrello di Duluth, Glaser, gioca con la contrapposizione, quasi ossimorica, tra una sagoma nera, delineata solo nei suoi tratti identificativi e una matassa di colori che vanno a formare un'altra parte dell’immagine. Ecco, allora, che i ricci di Dylan diventano nuvole fantasiose, guardiani simbolici di una mente geniale e produttiva che fa da contraltare al profilo serio del cantante, rivolto verso il basso, enigmatico, come il suo contraddittorio personaggio. Allo stesso modo, Don Draper, ci da le spalle, non ci mostra il suo sguardo, vediamo solo la sua sagoma, il suo guscio nero. Tutto quello che è davanti a noi sono i mirabolanti anni ’60 di Madison Avenue e una figura scura che li attraversa, partecipandovi e, allo stesso tempo, essendone distaccato.



Guardando questa immagine a confronto con quella del ’67, ed essendo un fan sfegatato di Dylan e un buon appassionato di Mad Men, ci sono due domande simili che mi riecheggiano in testa: Chi è davvero Dylan? Chi è davvero Don Draper?. Sono convinto che questi due poster siano così efficaci percettivamente perché riescono ad  interpretare, attraverso la contrapposizione di cui ho parlato, l’ambiguità strutturale dei due personaggi in relazione alla loro manifestazione pubblica e interiore. Dylan non è un cantante folk, non è un cantante di protesta, non è una rockstar, non è un poeta, non è il portavoce di una generazione, non è sincero né falso. Non è il diavolo né l’acqua santa. E’ una voce mistica, che comprende ogni genere di contraddizione e che sguazza nell’enigmaticità della sua produzione. Allo stesso modo, Don Draper, è un personaggio travagliato, contemporaneamente simbolo di sicurezza, con la sua parlata ammagliante e il suo ruolo di pubblicitario di successo, ma nasconde in se una miriade di identità in conflitto tra loro, di dubbi e dilemmi morali. Non è l’immagine dell’uomo in carriera pienamente felice del suo successo, ma, allo stesso tempo, è la piena incarnazione pubblica di questa stessa  immagine.
Credo che rispondere alle due domande che mi sono posto sia praticamente impossibile e per fortuna che è  così. La complessità di Mad Men viene proprio dalla caratterizzazione estremamente stratificata dei suoi personaggi e la grandezza di Dylan deriva dall’impossibilità di etichettare la sua figura e la sua arte. Milton Glaser, con due semplici immagini, due poster,  è riuscito a rendere l’idea di questa complessità confermando a pieno di essere uno dei più grandi del suo campo. Se si potesse giudicare un libro dalla copertina sarei tentato di dire che l’ultima serie di Mad Men sarà stupenda, ma purtroppo, come tutti sappiamo, non è così e quindi bisognerà aspettare di vederla sperando che sia all’altezza dell’immagine che la presenta.