lunedì 29 luglio 2013

Panino al prosciutto


Panino al prosciutto
  
Un romanzo di (de)formazione duro e commovente nello stile del miglior Bukowski









Con "Panino al prosciutto" il buon Bukowski porta in scena il suo consueto alterego, Herry Chinaski, negli anni che vanno dalla preadolescenza alle soglie dell'età adulta. Nonostante sia stato pubblicato succesivamente, questo romanzo, può essere visto come il prequel di "Post Office", dove un Chinaski ormai adulto, rassegnato, ubriacone, e donnaiolo vaga per le strade di Los Angeles cercando di svolgere, a modo suo, la professione di postino.
Il titolo originale, "Ham on rye", gioca con quello orginale del "Giovane Holden" di Salinger, cioè "The catcher in the rye", richiamando probabilmente l'affinità di tematica e struttura, in quanto anche Panino al prosciutto tratta di una vicenda fortemente autobiografica, narrata dal punto di vista del protagonista e riguardante prevalentemente gli anni adolescenziali.

Henry Chinaski è nato in germania ed è emigrato con la famiglia a Los Angeles durante gli anni della "grande depressione". La vita del giovane Henry non è affatto facile. Tanto per cominciare la situazione in famiglia è pessima.
Il padre è un uomo violento e autoritario, sempre arrabbiato e in collera con la realtà che lo circonda. Esce tutte le mattine facendo finta di andare al lavoro, ma in realtà è disoccupato. Sembra essere ossessionato dal dimostrare agli altri di essere qualcuno, di mantenere un controllo e un autorità che tuttavia non riesce mai a giustificare a pieno. Il suo rapporto con Henry è fortemente conflittuale. Il ragazzo viene obbligato dal padre a stare alle sue regole e a svolgere mansioni a modo suo ( ad esempio tagliare il prato), Henry si impegna a farlo, ma nonostante questo viene spesso punito violentemente e immeritatamente. Bukowski ci presenta il padre come una figura fortemente ostile, ipocrita e meschina. E' un modello di vita da evitare e simbolo di una frustrazione esistenziale che deve quindi sfogarsi con individui più deboli : il figlio, la moglie, i parenti falliti.
La madre è una figura lontana e assente, ci viene presentata in una luce migliore rispetto a quella del padre, ma comunque non fa niente per risollevare l'umore e le sorti del povero Chinaski, essento totalmente assoggettata alla figura del padre.
Si potrebbe pensare che Henry trovi un pò di sollievo fuori da casa, nella sua vita scolastica o nelle sue amicizie. Ma non è così. Studente mediocre, svogliato, apatico e asociale, Henry sembra essere in contrasto con tutto ciò che lo circonda. Non prova simpatia per i ragazzi della sua età, i pochi che lo seguono li considera dei buoni a nulla e fa di tutto per liberarsene il prima possibile. Man mano che si prosegue nella vicenda la figura di Chinaski assume i caratteri di una sorta di bullo anti-conformista. Nichilista, spregiuticato, irriverente, Henry cresce allenandosi negli sport, mettendo alla prova la propria forza fisica, facendo a pugni per motivi futili e attacando brighe spesso e volentieri.
L' entrata nell'adolescenza segna il passaggio da un'infanzia già buia e velata da una profonda tristezza ad un'età fatta di giornate senza senso, di risse di quartiere, di baldoria con compagni occasionali. Nel frattempo Chinaski conosce il piacere del bere, facile via per dimenticare le nefandezze della vita, e la biblioteca, luogo sacro e silenzioso dove rifugiarsi nei libri e negli autori, che sembrano essere gli unici e più sinceri amici del ragazzo.
Nella ricetta di disperazione, botte, alcol, anticonformismo, ironia, autodistruzione e sarcasmo del giovane Chinaski, Buk sembra lasciare un pò in disparte un elemento che è da sempre protagonista della sua produzione, ovvero la sfera sessuale. Henry pensa alle donne, ma quelle che aleggiano nella sua mente sono per lo più entità astratte. Le ragazze vere fanno parte di quel mondo che il ragazzo rifiuta e odia con ferma ostinazione. Henry si sente inadeguato e così, come cerca la solitudine dalle persone che lo circondano, non si spinge nemmeno al tentativo di conoscere e approcciare il gentil sesso. La sfiducia nel mondo e negli altri sembra davvero assumere caratteri universali.
 L'espressione di questo rifiuto degli altri, del mondo e perfino di se stesso può essere la drammatica descrizione dell'acne distruttiva della quale Henry è affetto. L'acne, oltre ad essere un disturbo della salute e una sfogazione epidermica dolorosa ed esteticamente orripilande, sembra essere anche l'esterorizzazione di una sensazione di inadeguatezza. Il corpo segnato dalle cicatrici e dai brufoli è l'immagine di un ragazzo che si vergogna della sua natura, che è insicuro nelle relazioni, costretto ad assumere il personaggio del duro della strada per darsi un tono, per trovare un'entità nella quale rifugiarsi dalla confusione e l'oscurità di un esitenza che sembra non aver nessun sentiero su cui procedere.
Chinaski nonostante le difficoltà riuscirà ad arrivare alla fine delle superori e ad affacciarsi senza speranze al mondo degli adulti, con la prima esperienza lavorativa e la svogliata frequentazione del college.
La vicenda si chiude simbolicamente in una giornata storica: è il 7 dicembre del '41. Le radio annunciano l'attacco a Pearl Harbor e la successiva entrata in guerra degli Stati Uniti. Chinaski sta facendo un giro con il suo amico Beker, aspirante scrittore che nel frattempo si è arruolato nei marines ed è quindi costretto a  tornare alla base. Henry rimane solo ancora una volta, senza un amico, senza una patria per cui combattere, senza un sogno da realizzare, vagabondo e frastoranto in una Los Angeles che sembra offrirgli solo la prospettiva di un futuro ancora più oscuro e degradante.



da PensieriParole <http://ww    eriparole.it/aforismi/stati-di  Panino al prosciutto è un romanzo caratterizzato da una sincerità disperata e quasi commovente. Lo stile di Bukowski è come al solito chiaro, scherno, diretto e senza fronzoli. I dialoghi sono semplici e dotati di una naturalezza disarmante. L'opera, pur essendo invasa da una negatività perpetua che attacca ogni sequenza della vicenda, non manca però si strapparci un sorriso amaro, grazie all'onnipresente sarcastica ironia, quasi dionisiaca, di Bukowski. Henry Chinaski è l'immagine di un ragazzo anticonformista che è in netto contrasto con tutto ciò che lo circonda. Egli non sogna di riscattare la sua brutta situazione di partenza, non sogna di diventare qualcuno, non aspira a nessun successo e nessun obiettivo.


Era un sabato sera di dicembre. Ero nella mia stanza e stavo bevendo molto più del solito. Mi accendevo una sigaretta dietro l'altra pensando alle ragazze, alla città, e agli anni che avevo davanti a me. Guardavo davanti a me e non mi piaceva quasi niente di quello che vedevo. Non ero un misantropo o un misogino ma mi piaceva star solo. Si stava bene seduti tutti soli in uno spazio ristretto a fumare e a bere. Avevo sempre fatto ottima compagnia a me stesso.


Chinaski cerca una libertà forse utopica, un isolamento da tutte le convenzioni sociali attraverso un comportamento menefreghista, duro, nichilista, scabroso e autodistruttivo andando incontro, forse troppo presto, alla frustrazione e delusione di vedere una realtà che non è mai come si vuole. Henry Chinaski è allora l'amareggiato e l'inappagato per eccellenza. Colui che, nonostante la maniacale opposizione ad ogni conformismo, non è riuscito a trovare la pietra angolare della sua esitenza, nemmeno perseguendo l'ideale libertario più spregiudicato. Un libro spietato come un pugno nello stomaco, ma nello stesso tempo ironico, scorrevole e, a tratti, quasi commovente nello stile del miglior Bukowski. Da leggere.

giovedì 25 luglio 2013

I kill Giants

I kill Giants di Joe kelly e Ken Niimura

Una ragazzina coraggiosa contro i giganti delle sue paure. Una storia che fa riflettere e commuovere


Copertina "I kill Giants"

Barbara Thorson è una ragazzina delle elementari molto particolare. E' intelligente, originale, determinata, quasi strafottente e molto coraggiosa. Vive in una piccola cittadina marittima americana insieme al fratello Dave e alla sorella Karen, che si è presa l'onere di capo famiglia dopo che il padre se ne è andato.
Barbara legge tanto ama il fantasy e i giochi di ruolo con la quale si diletta come Dungeon Master con i suoi pochi amici. I suoi comportamenti e il suo vestiario sono alquanto eccentrici, per questo a scuola viene considerata una ragazzina "stramba" ed è regolarmente presa di mira dalle bulle della scuola.




Barbara dorme nel seminterrato di casa sua poiché al piano superiore c'è un'entità che gli impedisce il passaggio e l'assilla con visioni mostruose. La maggior parte del tempo libero lo passa sulla spiaggia a costruire trappole per Giganti che sono la vera e propria ossessione della ragazzina. Barbara continua a leggere libri sui Giganti, ne studia le caratteristiche e si prepara ad affrontarli. I Giganti sono esseri mostruosi, portatori di morte e distruzione e Barbara è l'unica in grado di affrontarli grazie ad un'arma invincibile, il martello Koveleski, di cui è la fiera custode.
Ora i presagi di Barbara dicono che si sta avvicinando qualcosa di davvero devastante. Sta per arrivare un essere atroce che lei deve sconfiggere in modo che anche ciò che c'è al primo piano di casa tua e non riesce nemmeno a nominare non le faccia più paura.




La situazione di Barbara si complica ulteriormente con l'arrivo di Sofia, una ragazza carina e sensibile che le vuole essere amica e con le chiacchierate obbligate con la signorina Molle, una psicologa che la interroga sulla sua difficile situazione familiare e sembra voler scavare più a fondo nel suo carattere introverso e nella sua ossessione per i Giganti.
Può Barbara scoprirsi a relazioni di questo tipo? Il dialogo con queste persone scoprirà nervi della sua sensibilità che non riesce ad affrontare? Può una paladina custode di un potere così forte lasciarsi andare ed aprire il suo mondo? I Giganti sono solo il frutto della fantasia di una ragazzina o c'è qualcosa di più?
Tutte queste domande avranno una risposta durante lo svolgersi della vicenda, della quale non voglio anticipare di più perché è davvero ben congegnata e merita sicuramente la lettura.
I kill Giants ci mette di fronte a qualcosa che abbiamo conosciuto e conosciamo, ovvero le nostre paure e il nostro modo di porsi di fronte ad esse. I Giganti sono il simbolo del terrore, di ciò che ci blocca e che possiamo affrontare soltanto armandoci di tutto il coraggio che possediamo.
Joe Kelly scrive un testo fluido, ironico, avvincente e nel finale davvero commovente. Gli avvenimenti si susseguono in un mix esplosivo di simpatici dialoghi e sequenze di scontri reali o immaginati, in cui Barbara fronteggia le avversità reali e quelle della sua mente, in una quotidianità che la mette costantemente alla prova. E' davvero impossibile non affezionarsi a questa determinata ragazzina di quinta e elementare un po' nerd e sociopatica dotata di una spiccata fantasia e limpido coraggio. Barbara lotta per il suo presente, per la sua condizione mentale, per la scoperta di se stessa e per la sua felicità. Ci rivediamo bambini e nello stesso tempo non facciamo comunque fatica ad immedesimarsi in lei anche da adulti. Sotto la scorza apparentemente sbarazzina, il fumetto indaga tematiche importanti, intrattiene, fa riflettere ed emozionare.
Il disegno di J.M. Ken Niimura è davvero originale e funzionale alla vicenda. I personaggi sono carismatici e sempre ben caratterizzati. Le tavole risentono sia dell'influenza grafica del fumetto europeo sia di quello supereroistico americano, soprattutto negli scontri, sia del manga giapponese nella libertà compositiva. Questa composizione stilistica fornisce un impatto visivo davvero suggestivo e attraente.
Per concludere, ritengo che I kill Giants sia una graphic novel davvero imperdibile, capace di coinvolgere il lettore con un piglio prettamente cinematografico e un ritmo narrativo magnetico e avvincente. Una storia sull'infanzia e le sue paure, ma sopratutto è una storia che ci parla della vita, delle sue avversità e del coraggio che ci vuole per andare avanti e sperare di essere felici. Siamo più forti di quello che pensiamo, ma dobbiamo crederci e lottare, fino in fondo.

Per saperne di più:
http://en.wikipedia.org/wiki/Joe_Kelly_(comics)
http://niimurablog.blogspot.it/

sabato 20 luglio 2013

You don't know Jack


 You Don't Know Jack
 La libertà di scegliere di morire come diritto umano inalienabile






Quando una vita dilaniata dalla sofferenza e dalla malattia si può ancora chiamare propriamente vita? Quando la perdità di molte delle nostre facoltà fisiche e intellettuali fa si che la nostra esistenza non sia più degna di essere vissuta? Quando il dolore che ci pervade è così forte da considerare la morte come l'unico sollievo possibile?
Queste domande sono solo alcune di quelle che normalmente infiammanno il dibattito etico-politico riguardante la legittimità di interrompere le cure mediche in stati di salute critica e scegliere di morire.
Il tema è senz'altro dei più complessi e controversi. Sono in gioco istanze morali, culturali e situazionali e ogni caso è diverso, quindi è molto difficile riuscire a tracciare una linea di demarcazione netta. Stilare una legge universale che regolamenti questa area di nessuno tra la vita e la morte è compito che non sembra adatto all'umanità, eppure le nostre possibilità tecniche e mediche ci impongono di interrogarci su questi argomenti.
Negli anni '90 gli Stati Uniti sono stati protagonisti di una vicenda straordinaria da questo punto di vista, ovvero il dibattito sull'operato di Jack Kevorkian, un medico patologo, compositore e pittore, che approsimativamente tra il '90 e '99 ha prestato assistenza al suicidio a 129 pazienti e praticato l'eutanasia sul centotrentesimo.
Mi è capitato di recente di vedere un film intitolato "You don't Know Jack"  diretto da Barry Levinson e interpretato magistralemnte da Al Pcino che ha come protagonista proprio "il dottor morte".
Il film ci mostra l'operato di Kevorkian a partire dal primo paziente che gli chiede di morire a causa delle insostenibili sofferenze. Jack è fermamente convinto che chi ritiene il dolore talmente insopportabile da non poter considerare la sua vita nient'altro che un penoso calvario debba essere libero di scegliere la morte. "Morire non è un crimine" recita uno dei suoi aforismi più famosi.
Kevorkian è consapevole che il suo operato è ai limiti della legge e tocca un argomento su cui l'opinione pubblica è stata da sempre profondamente spaccata. Insieme alla sorella e ad un amico Neal Nicol ( J. Goodman) elabora quindi una complessa strategia che, oltre a "legittimare" il suo operato agli occhi di gran parte dell'opinione pubblica, sembra metterlo al riparo da una condanna legale. Kevorkian inanzitutto riprende il paziente, interrogandolo sulla sua condizione ed appurando la sua volontà di smettere di vivere. Dopo di che valuta attentamente il caso, accettando solamente pazienti "terminali" o dilaniati da sofferenze fisiche incurabili e rifiutando qualsiasi motivazione di altro tipo, come quella prettamente psicologica o "egoistica".( Nel film si vede il colloquio con un paziente depresso a causa di un incidente che chiede di morire. Il medico lo rifiuta perchè non "terminale" e avrebbe dunque la possibilità di avere una vita felice, una volta risolto il problema psicologico)
Una volta accettato il paziente e deciso il giorno dell'incontro, Kevorkian predispone una macchina, la "Mercy Tron", che rilascia alcune sostanze che provocano un arresto cardiaco subito dopo aver fatto cadere il paziente in stato comatoso. Il paziente decide quando attivare a macchina e in questo modo si da autonomamente la morte.
Il suo operato procura a Jack numerossissime chiamate a giudizio da cui tuttavia esce assolto, aiutato, oltre che dalle reazioni empatiche suscitate dai video dei pazienti nella giuria, dalle capacità e dalla lingua al vetriolo del suo avvocato.
Gli eventi si susseguono continuamente come uno scambio di battute tra Kevorkian che prosegue nella sua missione e lo stato del Michigan che cerca di fermarlo. La svolta decisiva avverrà quando Jack, deciso a portare il suo problema alla ribalta dell'opinione pubblica, nel 1999, dopo una trasmissione alla Cbs, viene incriminato di omicidio di secondo grado. Il caso in questione è diverso dai precedenti, in quanto Kevorkian somministra direttamente l'iniezione letale al malato che non era in grado di muoversi, rendendosi quindi responsabile diretto del decesso.
Jack Kevorkian decide di difendersi da solo in aula e il processo non ha per lui un lieto fine. Condannato a 25 anni di reclusione per omicidio di secondo grado, il medico ne sconterà 9 per poi essere rilasciato nel 2007 e condannato alla liberà vigilata per tre anni.
Questa è la vicenda a cui assistiamo nel film di Levinson. Al regista interessa farci vivere il travaglio esistenziale di Jack più che allargare il campo sul dibattito etico. Nel corso della storia scopriamo piano piano la determinazione di un uomo che credeva ( Kevorkian è morto nel 2011) nelle sue convizioni fino all'estremo, pronto a tutto per vederle realizzate. Quella di Kevorkian è una missione, una lotta senza tregua, una fede che lo accompagna in ogni sua azione e in ogni sua frase.
In tal senso l'opinione pubblica, le contestazioni e i movimenti pro e contro Kevorkian passano in secondo piano, pur facendo capolino in qualche scena, non sono mai al centro del racconto che si incentra sempre esclusivamete su Jack e la sua lotta.
Il film di Levinson è un film coraggioso, perchè sceglie di schierarsi in un certo senso con Kevorkian, di presentarci i fatti dal suo punto di vista, di farci empatizzare con il suo operato. E' praticamente impossibile non ammirare la determinazione e il senso per la libertà di uomo che è disposto ad andare contro tutti e tutto per un'idea che lui ritiene "rivoluzionaria" e "un passo avanti per l'umanità".
Nonostante il taglio fortemente biografico il film non si limita ad elencare una serie di eventi. L'interpretazione di Al pacino, oltre a mostraci l'operato del medico e farci scoprire a poco a poco le sue molteplici sfaccettature, ci tocca profondamente nell'animo e nella mente e ci costringe a ragionare su temi che urtano la nostra sensibilità.
La costruzione di Levinson secondo me funziona egregiamente, perchè calandoci pienamente nella vita di Kevorkian e non abbandonandosi a speculazioni più generali sulla legittimità del suo operato o sul tentativo di  stabilire una linea di demarcazione tra vita e morte, porta la nostra attenzione su una dimensione tutta terrena della questione.
La lotta di Kevorkian ci viene presentata per quella che è, ovvero una lotta per la libertà umana e per la scelta situazionale. E' una riforma della ragione, un passo illuminista. Il medico riduce il suo campo d'azione alla possibilità di scelta umana ed è questa la sua grandezza. La sua battaglia non vuole determinare un criterio generale, metafisico, dogmatico ma vuole soltanto legittimare la libertà di una scelta consapevole, quella di morire dignitosamente.



 Una delle opere pittoriche di Kevorkian



In più di un pezzo del film mi è rimbombata nella testa una famossissima frase di un filosofo austriaco a me molto caro, cioè "di ciò che non si può parlare di deve tacere". Jack lotta per ciò di cui si può parlare. Inquadra la morte in una visione del tutto umana e limitata, ovvero come la liberazione da una situazione di sofferenza insopportabile, non lasciando spazio agli aspetti per cui l'uomo è troppo piccolo per sentenziare.
I dibattiti etici, religiosi e filosofici spesso, su argomenti come questo, cercano di astrarsi dalla dimensione prettamente esperienziale, andando così a finire sul piano del dogma, cercando una definizione di vita e di morte come se fosse davvero possibile poter arrivare ad un piano chiaro, analitico e schematico su questioni di questa profondità.
Kevorkian sembra aver capito l'inutilità e l'arretratezza di questo modo di ragionare, che ci fa ristagnare in una dimensione "medievale" ( termine da lui utilizzato) e impedisce l'uscita dallo stato di minorità dell'uomo nell'ambito di una scelta che spesso si impone come necessaria, soprattutto date le nostre possibilità tecniche, ovvero quella di decidere se continuare a soffrire o lasciare questo mondo.
Le nuove frontiere della medicina ci permettono di influire in modo consistente con l'andamento "naturale" della vita, ci permettono di curare e ritardare la morte, anche per molto tempo. Con la tecnica l'uomo sembra costretto a giocare "a fare Dio" molto spesso. All'accusa di voler "fare Dio" selezionando e aiutando i pazienti a morire, Jack risponde che lo stesso medico che si accanisce con terapie, trapianti o macchinari su un paziente per tenerlo in vita gioca "a fare Dio". Obiezioni come questa sembrano ormai non avere più nessuna forza argomentativa. Infatti, in dibattiti di questo tipo, a causa delle nostre savariate possibilità d'azione è impossibile se non controproducente rifarsi ad un ormai ideale e lontano "stato naturale" con la quale legittimare o no il nostro intervento tecnico. La natura cambia in base alle nostre capacità e possibilità, è un'innervazione continua che ci pone davanti a nuove scelte e frontiere teoriche. L'uomo deve prendersi le sue responsabilità e accettare la sua libertà. E' questo il punto fondamentale dell'operato di Kevorkian, portare alla ribalta la questione dell'accettazione di un peso immane, ma tutto umano, cioè la libertà e la responsabilità di scegliere senza deleghe in base alle possibilità reali e alla situazione. Non c'è niente di divino, è tutto umano.
"Il medico deve occuparsi della vita e anche della morte", questa frase di Jack è ricca di spunti in quanto la morte, in questo caso, viene intesa come conseguenza di una scelta che fa parte di una possibilità della vita. Il medico, che è l'esperto, ha il compito di accompagnare il paziente nella scelta di morire, poichè essa deriva da una condizione di sofferenza della quale il medico è l'unico interprete "oggettivo", essendo proprio la malattia il suo campo d'azione.



 Jack Kevorkian e la Mercy Tron



Attualmente il suicidio assistito è permesso in alcuni stati come Belgio, Olanda, Svizzera, Lussemburgo, Colombia e Oregon, Washington e Montana negli Stati Uniti. E' importante di nuovo sottolienare che il suicidio assistito è diverso dall'eutanasia, in quanto nel primo è il paziente che sotto la supervisione del medico decide quando togliersi la vita attivando la flebo con le sostanze mortali. Nel secondo caso invece l'azione non procede dal paziente ed è prorio questo che ha portato alla condanna di Kevorkian.
Il film di Levinson e la vicenda di Kevorkian sono, a mio parere, un ottimo spunto per riflettere su questioni di vitale importanza come il suicidio assistito e l'eutanasia, ma soprattutto ci portano a confrontarci con il tema del diritto al libero arbitrio e forse sulla necessità nel nostro presente di operare una svolta "illuministica" su queste tematiche. Tutto questo dovrebbe portare all'accettazione della responsabilità e alla legittimazione dell'azione umana sulla base di una presa di consapevolezza personale piuttosto che su leggi e dogmi invalicabili fondati sulla paura, la superstizione e la secolarizzazioni di modelli etici e culturali che ormai richiedono una critica attiva, una decostruzione e una rivoluzione.







 Kevorkian ironizza sulla medievalità della legge dello stato del Michigan






Kevorkian ad una esposizione delle sue opere pittoriche


domenica 7 luglio 2013

Sunny

SUNNY
Un meraviglioso volo pindarico tra le fragili esperienze di vita di un gruppo di ragazzi di un orfanotrofio e una berlina gialla scassata che si muove solo con la fantasia




Sunny, il titolo di questo manga del maestro Tayio Matsumoto, si riferisce ad una Nissan 1200 di colore giallo. Questa vettura, scassata e inchiodata al suolo, non è una qualsiasi automobile pronta per lo sfasciacarrozze, ma è, invece, una sorta di posto al sole, un luogo magico dove poter far volare la fantasia per un gruppo di ragazzini di un orfanotrofio. Un orfanotrofio, è questo il mondo dove Matsumoto ci catapulta senza compromessi, facendoci vagare fra le molteplici storie dei fragili occupanti di questo microcosmo che sembra così lontano dalle logiche della comune vita famigliare.
I protagonisti della vicenda sono prorio i piccoli ospiti del centro di accoglienza "Hoshinoko". Il volume inizia con l'arrivo di un nuovo bimbo al centro, Sei, che ben presto farà viaggiare la Sunny con la sua fantasia fino a casa sua, quella che il centro dove è stato portato non potrà mai essere. Immediatamente veniamo a conoscenza anche degli altri ragazzi. C'è Haruo, un bambino dai capelli bianchi. Ribelle, duro, marina spesso la scuola e fa "muovere" la Sunny verso deserti sconfinati, dove immedesimarsi in cowboy postmoderni con occhiali da sole a specchio, sigaretta in bocca e una macchia di sangue sull'addome, frutto di immaginari scontri all'ultimo sangue. Poi c'è Junsuke, sempre con il moccio al naso e l'armonica in bocca, c'è il suo fratellino Shosuke sempre alla ricerca di un "quadlifolio" per la mamma. Troviamo Kenjii e sua sorella che si preoccupano per il padre alcolizzato; Taro portatore di handicap che passa le giornate a cantare ed è dotato di una senisbilità ingenua e commovente. Infine c'è Megumo una bellissima ragazzina alle prese con i primi turbamenti amorosi.





Il manga di Matsumoto è davvero una perla del fumetto orientale. Disegnato in modo schietto, delicato e poeticamente realistico è la rappresentazione cristallina di una società in cui i nuclei famigliari si sgretolano, dove i legami parentali si diluiscono e si complicano dando luogo a situzioni esistenziali uniche che vale la pena di osservare, conoscere e approfondire. Nonostante l'impegno del tema, Sunny, non è un'opera sdolcinata o patetica, anzi, riesce a prenderci al cuore proprio per la sua sincerità e la sua semplicità. E' un racconto quotidiano che ci fa riflettere perchè è estremamente vero.
Ho lavorato per un periodo della mia vita in un centro pomeridiano di accoglienza per minori e certe pagine di Sunny mi hanno catapultato diretto in quel mondo come se stessi rivivendo le mie esperienze con i ragazzi.Certi dialoghi, certe frasi, certe espressioni ti penetrano dentro e finisci per immedesimarti nella solitudine, nei travagli interiori e nella vita perennemente agrodolce di questi " figli di casa".
In definitiva, il primo numero di Sunny è davvero un piacere per la mente e per gli occhi, una vera chicca da non perdere!










mercoledì 3 luglio 2013

Pax Romana



PAX ROMANA

Un'ucronia fantastica, avvincente e intelligente per un capolavoro assoluto della graphic novel fantascientifica/storica firmato Jonathan Hickman




"Sono l'illuminata sintesi di mille santi uomini. Sono il vescovo di Roma, il Panchen Lama, l'ultimo Califfo, il Sacerdote eterno di Amon Ra, il Rabbino Nero e lo Sciamano Bianco. Sono il Vicario di Cristo. Sono il Gene Papa".
Pax Romana, di Jonathan Hickman, inizia così, con una stuccevole presentazione di uno strano personaggio chiamato Gene Papa che decide di far visita al Re del Mondo, un bambino di 4 anni, per raccontargli la storia dell'umanità. Storia che nessuno conosce, a parte lui e il gran sovrano d'africa. Storia che ogni Gene Papa conosce, perchè scritta nel proprio Dna, vero e proprio archivio segreto vivente del Vaticano.
Questa cornice iniziale è un meraviglioso pretesto con la quale Hickman ci narra un'ucronica storia dell'umanità dove si mescolano abilmente fatti storici, fantascienza, riflessioni morali, politiche e sociali.
La trama, ovvero la storia raccontata dal Gene Papa al Re bambino, è davvero avvincente, solida e originalissima. In generale, si narrano le imprese di una task force di uomini scelti dal Papa nel 2053 e spediti indietro nel tempo all'epoca di Costantino per modificare il passato e cambiare il futuro.
"Distruggi il passato, crea il futuro" è lo slogan che sembra chiudere quest'opera e che riassume in un certo senso l'idea alla base del lavoro di Hickman, anche se ovviamente non si limita a questo.
All'affascinante ricostruzione storica, si uniscono l'analisi dei rapporti e degli impulsi umani sia tra i membri della task force, impegnati in una missione che ha dell'incredibile, sia tra gli uomini di potere del tempo. Inoltre sono presenti numerose riflessioni sui modelli politici, sulla qualità e le conseguenze dele scelte umane, sulla società, sulla civilizzazione e la legittimazione del potere. Non mi sembra il caso di svelare più elementi della trama che è davvero tutta da scoprire e sicuramente non ne resterete delusi.






L'opera di Hickman, come sostiene Blair Butler nella prefazione al volume, sfugge a qualsiasi canone preciso di narrazione e stile fumettistico. Le tavole di Pax Romana sono davvero un piacere per gli occhi, caratterizzate da una vasta gamma di colori acquosi, che immergono le immagini e le figure in esplosioni cromatiche nello stesso tempo delicate e prorompenti. Tutto questo colore emerge da un bianco sempre presente in gran quantità nelle pagine di Hickman, che da alle tavole un autosufficienza percettiva davvero importante.





Lo stile "Hickman" non si nota solo nella grafica, ma anche nell'impegno tematico e nella complessità narrativa che alterna abilmente momenti dialogici ad intere pagine scritte sotto forma di documento d'archivio o trascrizione di testimonianza vocale. Tutto questo ci permette di oscillare costantantemente tra il racconto orale del Gene Papa al Re Bambino e il taglio documentarstico-storico imposto dalla fantastica ucronia protagonista di Pax Romana, quasi fossimo in grado di leggere nel Dna del Gene Papa e far scorrere l'archivio dell'intera storia umana.
Pax Romana è un capolavoro assoluto. Hickman è un genio visionario, dotato di uno stile unico e affascinante. Senz'altro una delle graphic novel più belle che abbia letto quest'anno.


lunedì 1 luglio 2013

Revolver

Revolver

Un mix avvincente di fantascienza, azione, psicologia e critica agli alienanti meccanismi della quotidianità firmato Matt Kindt  





Sam, il protagonista della vicenda, è un uomo qualunque. Vive in un appartamentino di città ed è impelagato in un "lavoro di merda" con un capo che è l'immagine della tipica donna in carriera isterica, autoritaria, supponente e spocchiosa, che lo costringe ad editare stupide foto di eventi mondani da pubblicare sulla sua rivista. Sam ha una fidanzata superficiale e materialista, che pensa solo ad arredare casa, fare shopping e spendere ulteriori soldi in oggetti di lusso. I rapporti con i colleghi sono freddi e distaccati. Uno di loro sta pensando di fondare una rivista indipendente, "Revolver", ma non lo prende minimamente in considerazione.
Sam è intrappolato in una routine senza anima, vaga apatico tra i vari settori della sua vita ormai senza scopi, vegeta alienato nella sua quotidianità piatta e frustrante.
C'è un altro Sam, che vive in un altro mondo, un mondo sull'orlo della fine, dove c'è una guerra nucleare in atto, dove la gente armata si difende dagli sciacalli, dove la violenza è all'ordine del giorno, dove un'epidemia di influenza aviaria ha ucciso milioni di persone. In questo mondo catastrofico c'è sempre Sam, ma è più sicuro di sè, riesce a fare cose e a prendere decisioni che nel "mondo vero" gli sono impossibili, la sua direttrice è più umana, i colleghi gli sono solidali e lo coinvolgono nei loro progetti, la sua fidanzata è più sensibile e profonda.
Da una parte c'è una realtà sterile e dominata dalla routine e dall'alienazione, dall'altra parte c'è un mondo caotico ricco di avventura, azione ed emozioni. Sam ogni giorno alle 11:11 viene sbalzato dalla sua "vera" vita a quella del mondo parallelo. Ma qual è la realtà vera? qual è la veglia e qual è il sogno? Quale delle due vite scegliere?
I piani del reale finiscono piano piano per sovrapporsi e la percezione di Sam si fa più ampia, la sua presa sul reale, avvalendosi delle esperienze fatte in entrambe le realtà, si fa più complessa e gli consente di ricavare più informazioni che possono aiutarlo a crescere, a capire se stesso e le sua condizione.
Se da un lato l'esperienza vitale si fa più ricca, dall'altro la doppia vita destabilizza la psiche di Sam che sembra spingere per la scelta di una delle due come vita vera e l'altra come illusoria. La chiave è dunque quella di cercare un elemento comune tra le due vite che possa far luce sull'ambiguità di questa strana situazione esistenziale e aiutare Sam a comprenderla e forse ad uscirne, ma non uguale a quello che era prima dello sdoppiamento.
La costante tra i due mondi sembra essere un ambiguo individuo impegnato in corsi di automotivazione, chiamato Verve. L'incontro tra Sam e Verve porterà a sviluppi della vicenda inaspettati fino ad un finale scoppiettante che tirerà le fila della dicotomia esistenziale tracciata in tutta l'opera.
Revolver è sicuramente un'ottima graphic novel che mixa in modo interessante e convincente il mistery dai toni fantascientifici e la disamina sull'alienazione della società contemporanea, il tutto con un impostazione fortemente post-moderna.






Leggendo le pagine di Kindt mi sono venute in mente certe atmosfere Dickiane (in particolare Radio libera Albemuth), alcuni riferimenti cinematografici, come "Ricomincio da capo", "The family Man", "Inception", ma anche "Donnie Darko" per la costante attenzione al mondo superficiale delle relazioni quotidiane, alla alienazione della routine e per il taglio fortemente "schizofrenico" e "psico-fantascientifico" di tutta la vicenda, oltre che per alcune scene (soprattutto una di quelle finali, molto simile all'epilogo del film di Richard Kelly).
Inoltre possono essere riscontrabili alcuni richiami anche a serie Tv come Awake e Life on Mars.
Gli spunti di riflessione degni di nota in quest'opera non mancano di certo e Kindt con il suo stile cartoonesco e graffiato, oltre ad essere perfetto per fornire ancor più destabilizzante alla storia, rende la lettura agevole e piacevole, nonostante i costanti sbalzi dimensionali tra le due vite di Sam.
Per concludere, Revolver è un opera solida e avvicente. Lo stile grafico di Kindt è caratteristico e funzionale alla vicenda, i dialoghi possono sembrare un pò banali, ma in realtà supportano ottimamente la trama e non mancano di farci riflettere. Un buon prodotto, da non perdere.


Autore: Matt Kindt (testi e disegni)
Casa Editrice: Bao Publishing
Provenienza: USA
Genere: Fantascienza
Prezzo: € 17,00, pp. 173, b/n
Data di pubblicazione: ottobre 2012