sabato 28 giugno 2014

Imperi





Una cittadina nel cuore della provincia americana. Lo scenario tipico di un racconto di Carver o di Richard Ford. Quelle case tutte uguali, ognuna con il suo giardino, con la sua piccola veranda di legno e, di fronte ad esse, strade ampie e deserte che tracciano un reticolato omogeneo, segnando le direzioni verso l'immensita che stordisce e fa sembrare ogni luogo al suo interno "il buco di culo" del mondo.
In questo cuore dolente d'America, così lontano dalle luci delle grandi città, si incrociano le vicende esistenziali di tre ragazzi: Lee, Sarah e Purdy. Sono loro i protagonisti, insieme all'America, di Imperi, graphic novel in bilico tra realtà e fantasia firmata da Nate Powell, vincitore del premio Eisner per Swallow Me Whole.
Già sfogliando le prime pagine dell'opera, Powell, ci immerge nell'atmosfera alienata e desolante della periferia americana. Tutto sembra surrealmente statico, quasi stessimo parlando di un luogo dimenticato dal resto del pianeta, ormai chiuso nella sua solitaria storia. Per chi nasce in un luogo come questo, il primo nemico che ci si trova ad affrontare è la noia. Così Lee passa le giornate a leggere fumetti e ad inventarsi immaginarie missioni con protagonisti i suoi eroi preferiti. Purdy ha messo in piedi una piccola gang, mentre Sarah legge tantissimi libri nel tentativo di evadere dall'insipida realtà che la circonda.
I tre ben presto entrenno in contatto, sviluppando un legame basato sulla geografia ma anche, e soprattutto, su una misteriosa e brutale serie di mutilazioni ad alcune tartarughe.
E' questa la prima immagine vivida della violenza con i quali tre entrano in contatto, più reale delle immagini di guerra che arrivano dalla tv. E' in questo modo che i ragazzi iniziano a fare i conti con la realizzazione concreta delle loro fantasie di potere, a sperimentare cosa vuol dire agire, fare male, essere oppressi ed opprimere, pur vivendo in un posto dove a farla da padrone sembrano essere l'impotenza e la distanza dal mondo dove le cose si decidono e succedono.



Dopo essersi persi di vista i tre si rincontreranno nell'età adulta. Ognuno di loro avrà seguito strade diverse, ma tutti si troveranno a lottare per il proprio futuro tra l'incertezza della vita, la frustrazione del lavoro e la difficoltà di accettare e padroneggiare la propria libertà, la propria responsabilità, il proprio potere.
L'opera di Nate Powell si presenta come un affresco della classe media americana e del suo rapporto con lo spirito di una nazione, che spesso si incarna nella sua forma più ampia e avvolgente nel dito immobilizzante dello Zio Sam. La violenza, il dovere e l'amore per la patria sono l'unico collante che legano il centro sperduto dell'America ai mirabolanti luoghi del potere e del sogno a stelle e strisce. Tuttavia, tutto questo, sembra arrivare in queste terre desolate sotto una forma distorta. Immagini televisive che fanno paura, ma che sembrano sempre così lontane, spiriti fanatici che si presentano come l'unica occasione per avere una rivalsa da quella condizione di impotenza e alienazione, fantasmi da cui allontanarsi, crogiolandosi nella sconfitta, ma con la consapevolezza che quel potere opprimente non sarà mai così vicino da sconfiggerti del tutto e, quindi, in fondo, chissenefrega.


I temi trattati da Imperi sono perfettamente espressi dal tratto di Powell, che mi ha ricordato sia lo stile di Jeff Lemire che quello di Craig Thompson. Come in Essex County del primo, il paesaggio, descritto con linee essenziali ma graffianti, diventa protagonista delle vicende facendo da sfondo alle storie, alle azioni e alle riflessioni dei personaggi, aggiuggendo ad esse una carica espressiva notevole. L'atmosfera fortemente realistica e cinematografica, che sembra strizzare l'occhio all'estetica di un certo cinema indipendente americano, viene intervallata a sequenze più oniriche, soprattutto dove si cerca di esprimere il tentativo di evasione dalla realtà dei protagonisti attraverso la fantasia o dove, con immagini quasi metaforiche, si cerca di rappresentare un potere che sembra impossibile da controllare, sia per chi lo dovrebbe gestire sia per quelli che lo subiscono. E' così che un esercito di carrarmati che avanzano verso la cittadina, simbolo della  catastrofe e dell'oppressione dell'esistenza con le sue scelte più o meno obbligate, mi hanno ricordato la cavalcata degli Aurochs in Re della Terra Selvaggia. Proprio come la piccola Hushpuppy in quel film, anche i nostri protagonisti saranno costretti a prendere consapevolezza delle proprie possibilità, a fare un salto di cosapevolezza, per poter prendere in mano le proprie vite e affermare la propria individualità, volgendosi con sguardo limpido verso il futuro.
In conclusione, Imperi è un'opera davvero profonda e complessa, sicuramente non di facile lettura e assimilazione, ma capace di emozionare e far riflettere. Con il suo linguaggio e le sue immagini sempre in bilico tra scarno realismo e atmosfere oniriche riesce ad esprimere a pieno l'alienazione e lo straniamento della classe media americana, un esercito di "invisibili" sepolti nel cuore di una nazione immensa e piena di contraddizioni, dove carnefice e vittima si intercambiano continuamente e la violenza è sempre pronta ad esplodere, inaspettata e devastante.







sabato 21 giugno 2014

Santuario



Il connubio fantascienza-horror ha più volte dimostrato di essere un'ottima base di partenza per la costruzione di intrecci narrativi molto interessanti. Se penso al cinema le prime due pellicole che mi vengono in mente da questo punto di vista sono Alien di Ridley Scott e La Cosa di John Carpenter, dove elementi tipicamente sci-fi si intrecciano ad atmosfere angoscianti, claustrofocbiche, ricche di suspence e risvolti terrificanti.
Spostando ora l'attenzione dal medium cinematografico a quello fumettistico, un'opera che risponde certamente a questa caratterizzazione ibrida, compresa tra l'horror e la fantascienza, è Santuario di Cristophe Bec e Xavier Dorison, edito da Mondadori come secondo numero della collana Fantastica.
Al pari della famosa opera di Carpenter, dove una spedizione di scienziati precipita lentamente nel panico a causa di una misteriosa infenzione che sembra trasformare ogni essere vivente in orripilanti mostri alieni, anche Santuario è giocato proprio su una escalation di tensione dovuta a qualcosa di spaventoso che sembra gradualmente insinuarsi tra i membri dell'equipaggio di un sottomarino in missione.
Santuario, come ogni opera che fa della suspence il suo elemento principale, parte piano. Dorison ci presenta dapprima tutti componenti dell'quipaggio dell'equipaggio dell'USS Nebraska, sottomarino americano impegnato in una missione dai fini non specificati nelle profondità del mediterraneo. I segreti e le omissioni sulle motivazioni della spedizione verrano svelati a poco a poco durante lo svolgersi della vicenda, ma già da subito si intuisce che qualcosa sta per succedere.




L'evento cruciale, che accende quello che sarà un appassionante climax ascendente di tensione, è la scoperta di un enorme santuario sepolto nelle profondità marine. Attirati dalla curiosità di sapere che cosa si cela in questo luogo, l'equipaggio del Nebraska organizza una spedizione di esplorazione.Grazie all'esperienza sul campo, congiunta con una ricerca teorica a bordo del sottomarino, si intuisce presto che il santuario è collegato ai riti, ai poemi e alla mitologia dell'antica civilta Ugaritica. Nel santuario sembra nascondersi un segreto occulto e spaventoso, qualcosa che non è di questo mondo e che possiede una potenza tanto devastantante da costringere un popolo pacifico al sacrificio di massa. Saranno solo semplici superstizioni, frutto di culti pagani ancestrali o ingenue credenze in immaginarie divinità sanguinarie o, invece, sarà proprio una di esse ciò che è nascosto nelle profondità del santuario? Perchè sia i Nazisti sia i Russi avevano organizzato spedizioni in questo luogo? E perchè tutti i tentativi si sono rivelati un terribile fallimento?



Dalle clasutrofobiche atmosfere metalliche del sottomarino agli opprimenti ambienti cavernosi del Santuario, Dorison costruisce un dramma psicologico complesso e intelligente. Mixando sapientemente elementi fantascientifici, storici, archeologici, horror e fantastici, l'autore riesce a creare una situazione che porterà i protagonisti a confrontarsi con situazioni pericolose e assurde, mettendo alla prova il loro addestramento militare e portandoli oltre i limiti della ragione. Così, la paranoia inzia a diventare protagonista delle relazioni interpersonali e delle elucubrazioni private, le paure più ancestrali assumono la forma nitida di sogni che sembrano reali per poi diventare vere e proprie allucinazioni ad occhi aperti. Non mancano anche le suggestioni tipiche di una spy story e della narrativa fantastorica, con la citazione di documenti top secret e di personaggi realmente esistiti, arrivando a sfiorare, ad esempio, l'occulto esoterismo più volte collegato ai circoli nazisti.
La narrazione procede con un ritmo lento e asfissiante, a volte quasi opprimente, che schiaccia inesorabilmente il lettore, ma che riesce comunque a tenere alta la tensione, invogliando a proseguire la lettura. I dialoghi sono maturi e contribuiscono ad una delineazione psicologica complessa dei personaggi. Dorison riesce a creare una efficacissima rete di rapporti e intrecci tra le vicende personali di ogni personaggio e la storia principale legata alla missione del sottomarino. In questo modo le paure della situazione presente si incrociano con le angoscie del passato e della vita "in superficie" creando un variegato affresco umano dell'equipaggio. Sempre riguardo alla narrazione va sottolineata l'estrema verbosità dell'opera, che fa della storia raccontata un'incessante e corposo crescere di tensione, non concedendo quasi mai un attimo di stacco e respiro al lettore. Questo, se da un lato potrebbe risultare un elemento negativo e forse controproducente, dall'altro non fa che aumentare quella sensazione di claustrofobia, follia e terrore che pagina dopo pagina sembra attenagliarci fino nel profondo delle viscere.



Passando all'aspetto prettamente grafico posso solo dire che il lavoro di Bec è qualcosa di davvero straordinario. Il disegnatore delinea le atmosfere metalliche del sottomarino, così come le profondità acquatiche, con toni cupi e avvolgenti, impreziositi da raffinati giochi d'ombra che vi aggiungono una carica espressiva davvero notevole. Tutto risulta minaccioso, terribile e clasutrofobico Il tratto preciso e dettagliato di Bec caratterizza i personaggi in modo impeccabile, dando molta attenzione ai particolari del volto e dei gesti, contribuendo, in questo modo, a rendere ancora più efficaci sia i dialoghi sia la tensione percepita grazie all'ambientazione. Se per tutta la narrazione prevalgono colori scuri e plumbei, non mancano, tuttavia, le aperture a scenari dai toni più brillanti o sfumati o, addirittura, abbaglianti come, ad esempio, nelle spettacolari scene dove vengono rappresentate le esplosioni.



Per concludere, Santuario è un ottimo fumetto, dotato di un intreccio narrativo curatissimo e molto appassionante, capace di mixare generi differenti e mantenere una solidità impeccabile per tutta la durata della vicenda. A questo si deve aggiungere un impatto visivo veramente impressionante che rende ogni tavola un piccolo capolavoro dal punto di vista percettivo ed espressivo.

martedì 10 giugno 2014

Blatta




"Io volevo solo stare tranquillo. Non volevo che l'ansia di una morte che mi ponesse di fronte alle mie responsabilità, mostrandomi quanto male avessi vissuto. Ora la morte non è più un problema. Tante cose non mi sono chiare, lo ammetto...ma la curiosità non è più tra le mie priorità. Ho la vita eterna, posso permettermi di rimandare domande e risposte".

Libertà e sicurezza sono due termini che sembrano essere perennemente connessi all'interno delle nostre esistenze. Immaginando una sorta di semplicissimo rapporto proporzionale tra essi, si potrebbe dire che all'aumentare dell'uno sembra diminuire l'altro e viceversa. Se ci concentriamo dunque sulla libertà, quella che caratterizza l'uomo e la sua capacità di decidere della propria vita, dalle più piccole azioni quotidiane alle cosiddette "scelte della vita", capiamo subito di trovarci in una zona dove la possibilità positiva di muoversi secondo il proprio arbitrio in un campo vastissimo si incrocia, inevitabilmente, con l'incertezza della via da percorrere in questo stesso spazio.
La libertà, dunque, ci appare immediatamente come qualcosa che oscilla tra un diritto naturale, fondato sulla nostra stessa conformazione biologica e mentale, strumento di crescita personale e collettiva e un peso difficile da sopportare per ognuno, ancora più difficile da gestire se rapportato alla dimensione di equilibrio collettivo.
Qualche giorno fa ero in fumetteria e ho visto un volume dalla copertina bianca con uno scarafaggio disegnato che sbucava dall'angolo in alto a sinistra. Quella copertina così minimale mi attirato immediatamente. Ho preso in mano il volume, l'ho girato e sul retro campeggiava una sola frase: "l'uomo non è in grado di gestire la propria libertà". Ecco spiegata la mia breve riflessione iniziale. In questo post, infatti, parlerò di Blatta, meravigliosa e inquietante graphic novel  di Alberto Ponticelli, edita da Rw Lion per la collana Lineachiara, proposta anche con una variant cover tutta bianca, quella che ho avuto la fortuna di trovare io.
Blatta ci narra la storia di un uomo che vive in isolamento dal mondo esterno e dal suo stesso corpo. Eventi storici hanno portato alla clonazione e, di conseguenza, ogni uomo non può morire. Infatti, quando una persona muore, viene scongelato un altro corpo, un suo clone, che accoglierà il cervello del deceduto una volta riattivato. Tuttavia, il prezzo per questa immortalità, fatta di cloni e continue reincarnazioni in se stessi, non è stato basso. Il compromesso accettato dall'umanità per raggiungere questo nuovo equilibrio, dettato in particolar modo dal sovraffollamento, è un nuovo stile di vita basato principalmente su una totale assenza di libertà e contatti sociali. Ogni persona, infatti, vive in un loculo di dieci metri quadrati e gli è consentito spostarsi solo per andare al lavoro, ma il tragitto è velocissimo e compiuto sotto una particolare forma di anestesia totale. Ogni contatto con il mondo esterno e con il proprio corpo è severamente proibito, al fine di allontanare il rischio di ribellione al nuovo ordine stabilito.
Nella piccola stanza che ormai segna i confini del mondo di ognuno c'è anche una valigetta da usare "in caso di necessità", ma il nostro protagonista sembra non averne bisogno. Come tutti gli altri esseri umani, anche lui, ha accettato le stesse regole.
Quello appena descritto è lo scenario in cui vive il protagonista di Blatta, almeno fino a quando uno scarafaggio non si introduce nel suo loculo, sconvolgendo inaspettatamente la sua esistenza e catapultaldolo nel mondo esterno. Come sarà riappropriarsi di una dimensione ampia di movimento e scelta? Cosa succederà se il protagonista incontrerà qualche altro umano? Da questa piccola crepa casuale del sistema sgorgherà la linfa per un nuovo inizio o sarà solamente una piccola eccezione destinata ad essere presto soppressa, magari dallo stesso peso esistenziale della speranza di una svolta di portata universale?




L'opera di Ponticelli ci presenta un futuro distopico, dove l'uomo ha barattato la propria libertà con l'immortalità e la sconfitta della morte giudicatrice. La clonazione, massima frontiera e miraggio della biocibernetica, viene qui inquadrata come la possibilità tecnica capace di donare la vita eterna all'uomo attraverso la conservazione di se stesso. 
Nell'immaginario del clone abbiamo spesso l'idea di una riproduzione infinita di identici, di un processo che ci conduce, a livello iconografico, ad immaginare eserciti numerosi "stile Star Wars" e quindi alla possibilità di una continua moltiplicazione di uno stesso esemplare. In Blatta, invece, il clone è inserito all'interno di un processo circolare, che non va nella direzione di una moltiplicazione attiva di esseri vitali, ma, al contrario, punta ad un eterno ritorno dell'uguale, anche dal punto di vista del numero degli esemplari vivi. La morte di un esemplare e lo scongelamento del suo nuovo corpo, sembra essere l'unico movimento accettabile e sostenibile per mantere l'ordine generale così com'è.




Il comparto concettuale e immaginario legato alla clonazione viene espresso ottimamente anche dall'aspetto grafico dell'opera. Infatti, gli umani, vengono rappresentati come anonimi palombari che mantengono il loro casco anche quando si tolgono la tuta. Il fatto di non mostrare il viso, di occultare i tratti somatici, si collega benissimo a quel pensiero, espresso più volte anche da filosofi come Baudrillard, sull'inquietante scenario futuro popolato da "cloni acefali". Corpi vuoti, riprodotti e congelati al fine di ospitare cervelli di terzi, proprio come in Blatta, o di diventare "carne da macello", bacini di organi da cui servirsi a piacimento.
Proprio la riduzione a "nuda vita" sembra essere il fantasma che aleggia nella stessa idea di immortalità che viene presentata nell'opera di Ponticelli. Gli umani si alimentano attraverso tubi ed evacuano i loro bisogni biologici attraverso un catetere. Rifornimento energetico ed espulsione dei rifiuti. L'uomo assomiglia sempre di più ad una macchina biologica e sempre meno ad un animale in contatto con il suo corpo, caratterizzato dalla facoltà di esercitare il suo libero arbitrio. Come gli uomini coltivati in Matrix o la sagoma umana in posizione fetale, con gli orifizi collegati a grossi tubi di gomma, scolpita da Gormely in Sovereign State, anche i personaggi di Blatta esercitano i propri bisogni biologici all'interno di un meccanismo di controllo esterno, che punta solamente alla conservazione della mera stabilità vitale.




Sempre sul lato concettuale è interessante vedere come sia un'animale piccolo e schifoso, ma con grandi capacità di adattamento, a sconvolgere l'esistenza del protagonista. La vita che sfugge al controllo della macchina, che si insinua in una fessura e provoca una voragine. L'uscita dal loculo sembra così essere la possibilità della vita di tornare a svilupparsi in uno spazio ampio e ricco di possibilità, ma, senza svelare il finale, Ponticelli continuerà a dimostrarci quanto sia difficile per l'uomo gestire la propria libertà e l'incertezza che ne deriva.



Passando ora sul lato prettamente grafico, la prima cosa che mi viene da dire è che Blatta è qualcosa di percettivamente sublime e sconvolgente. Le atmosfere sono oscure e claustrofobiche, le linee sporche, tremanti e nervose. Gli ambienti sono un groviglio di tubi, palazzi, macerie e fessure che non hanno potuto non ricordarmi gli apocalittici scenari delineati da Tsutomu Nihei in Blame!. Le prospettive e le inquadrature hanno spesso angolazioni davvero ardite, dando uno strano senso di vertigine negli ambienti esterni e di oppressione in quelli interni. Le tavole sono di norma divise in grossi rettangoli che sembrano comunicare una sequenzialità fortemente cinematografica e un'estetica a volte quasi fotografica se osservati singolarmente. Non mancano, tuttavia, bellissime pagine uniche dove la bravura di grafica di Ponticelli viene esaltata in tutta la sua potenza espressiva.


Per concludere, Blatta è un'opera davvero straordinaria. L'autore riesce ad esprimere, in modo molto efficace, il grande problema umano riguardante la difficoltà di gestire adeguatamente la propria libertà, inserendolo nella presentazione di una situazione estrema, dove l'umanità ha deciso di accettare un compromesso che ha portato all'estinzione della libertà stessa pur di non dover sopportare il suo immane peso. Oltre a tutto questo, la forza di Blatta consiste nel farci ragionare su alcuni temi legati alla cosiddetta età biocibernetica, quella in cui, più o meno inconsapevolmente, viviamo. Primi fra questi temi, ovviamente, quello della clonazione e della riduzione a "mera vita". Inoltre, come se questo non bastasse, l'opera di Ponticelli è dotata di un comparto grafico straordinario, caratterizzata da tavole di rara potenza espressiva e perizia tecnica. Consigliatissimo.






domenica 8 giugno 2014

Metamorphosis




Giacomo Keison Bevilacqua ha guadagnato notorietà nel panorama fumettistico italiano soprattutto per A Panda piace, uno strip comics che l'autore pubblica regolarmente sul suo blog. Il successo ottenuto da A Panda piace ha portato alla pubblicazione di alcuni volumi cartacei, nonchè alla creazione di numerosi  gadget. Tuttavia, Bevilacqua, non è solo l'inventore del popolare Panda, ma anche l'autore di Metamorphosis, una buona miniserie a fumetti, raccolta in un volume "omnibus" da Panini Comics.
La vicenda di Metamorphosis vede come protagonista Luna Mondshein, una giovane blogger e scrittrice romana, che sembra essere affetta da una singolare forma di schizofrenia. L'esistenza della ragazza, infatti, è sempre in bilico tra realtà e immaginazione, in particolar modo durante il sonno. In questi momenti Luna viene catapultata in un mondo fantastico popolato da creature della mitologia greca, un sogno che è sempre troppo lucido e cosciente, tanto da sembrare una seconda realtà.
La dimensione onirica di Luna è così convolgente che essa è costretta, ad ogni risveglio, a rispettare 5 regole d'azione in sequenza solo per poter riacquistare il pieno controllo sulla realtà.
Date queste premesse, cosa succederebbe se i sogni di Luna inziassero ad avere inquietanti legami con la vita reale, in particolare con le vittime di una sequenza di delitti, che sembrano portare il marchio di uno stesso serial killer? Cosa c'è nel passato di Luna e che cosa lo lega al misterioso assassino?



Come comprensibile da questa breve della trama, Metamorphosis si presenta come un classico thriller psicologico metropolitano, in cui la difficile condizione psichica ed esistenziale della protagonista si incrocia con un' indagine poliziesca, segnata da un'efferata serie di omicidi che mostrano una simbologia molto specifica e sempre più riconducibile alla stessa vicenda personale della ragazza.
Nonostante questo impianto non sia dei più originali, l'opera di Bevilacqua non esaurisce di certo qui la sua natura. Infatti, oltre ad aver tessuto un avvincente e ben congeniato intreccio di genere, l'autore risulta capace di cambiare più volte le carte in tavola, calcare la mano ora sul lato più fantasy ora su quello più realistico, impedendo così al lettore di riuscire, fino alla fine, ad inquadrare la vicenda e il suo epilogo. Anche il lettore, dunque, è costretto ad una continua oscillazione tra realtà e illusione, proprio come Luna.
Altro elemento molto interessante del microcosmo di Metamorphosis è l'originale mistione di luoghi e riferimenti culturali. Il palcoscenico della vicenda è infatti estremamente reale e familiare: Roma, con le sue strade, i suoi scorci e i suoi monumenti. Tuttavia, la città eterna, sempre riconoscibile con i suoi tratti a far da sfondo alle vicende dei protagonisti, non solo si incrocia con gli ambienti onirici dei sogni di Luna, ma arriverà addirittura ad ospitare creature fantastiche tra le sue strade, in uno scenario da film di fantascienza. Nello stesso modo Bevilacqua gioca anche con i riferimenti culturali, mischiando il classico al pop. Così la mitologia greca si mischia ai fumetti e ai videogiochi, le citazioni di classici greci e latini si interesecano con quelle di serie Tv e film hollywoodiani.


I dialoghi che strutturano la vicenda sono sempre molto semplici e fluidi, caratterizzati spesso da toni ironici e leggeri, rendendo la lettura scorrevole e piacevole.
Passando invece all'aspetto grafico dell'opera, si può dire che i personaggi creati da Bevilacqua, seppur delineati con un tratto molto semplice, che a volte può sembrare quasi abbozzato, risultano ben caratterizzati, rispondendo funzionalmente sia alle scene dialogiche e introspettive, sia a quelle più action. Belli e di impatto anche gli sfondi, che ci regalano, come abbiamo già detto, dei suggestivi scorci romani. Una menzione d'onore va inoltre riservata  alle splendide sequenze disegnate da Sonia Aloi, che illustrano i racconti scritti da Luna. In queste tavole la disegnatrice esibisce un tratto marcato e sinuoso, cartoonesco, ma molto espressivo, che si adatta benissimo ai toni fiabeschi dei racconti. Delle piccole gemme che impreziosiscono notevolmente il volume e il suo comparto grafico.
Per concludere, Metamorphosis è un buon fumetto, dotato di una trama solida e avvincente, che sa mischiare toni, riferimenti e  influenze molto diverse e riesce a tenere il lettore incollato alle pagine fino a fine lettura.



martedì 3 giugno 2014

Non costa niente



Shangai, 2008. La più occidentale e consumista metropoli cinese è in trepitante attesa delle Olimpiadi. I suoi enormi grattacieli sono testimoni di una brulicante realtà fatta di vite frenetiche, attrazioni di ogni genere, negozi, ristoranti di lusso, ricchi lavoratori stranieri e facoltosi turisti che passano le proprie giornate tra shopping e locali. In questo ecosistema cittadino convulso e dinamico, che sembra configurarsi come un vero e proprio paese dei balocchi per turisti occidentali, si muove con edonistica non curanza Pierre, un ragazzo francese in attesa di una corposa eredità. E' questo lo scenario iniziale di "Non costa niente", graphic novel di Saulne edita da Coconino Press.



Pierre, come i suoi connazionali francesi e molti altri turisti europei, si lascia andare ai piaceri mondani di Shangai. Ristoranti di lusso, massaggi, feste, night club e avventure con ragazze facili in attesa del ricco pollo da spennare.
I giorni passano veloci tra una baldoria e l'altra, ma, con lo scorrere di questi, diminuisce anche il denaro, mentre l'eredità che Pierre sta aspettando tarda ad arrivare. Il ragazzo è dunque costretto dalla scarsezza delle sue risorse economiche a rinunciare a molti dei vizi che hanno accompagnato i suoi primi tempi nella città cinese, scoprendo, di conseguenza, l'esistenza di una Shangai diversa, lontana dal mirabolante mondo dove si muovono i suoi conoscenti. E' una città fatta di case fatiscenti, di vite umili e sguardi malinconici, dove trabicoli motorizzati si sostituiscono alle macchine lussuose e il consumismo sfrenato lascia spazio alla quotidiana parsimonia di chi tira avanti a fatica per sopravvivere.
Pierre si avvicina sempre di più a questa realtà, così lontana sia da quella che vivono i suoi amici sia da quella da dove proviene. L'occidente si fa sempre più lontano, aprendo il campo ad una nuova visione del mondo, ad un nuovo comparto di bisogni e priorità.
Pierre restringe al minimo i suoi desideri, mangia poco e cammina. Pierre cammina per risparmiare, cammina perchè "non costa niente" e così facendo inizia a conoscere se stesso in un modo del tutto inedito, a riprendere confidenza con una dimensione del proprio corpo con la quale non aveva mai dialogato: lo stomaco. Sentire il crampo del morso della fame è una sensazione che ci ricorda la nostra dimensione più visceralmente biologica, che mette in evidenza ciò che c'è sotto l'imponente e ingombrante ammasso sovrastrutturale delle nostre esistenze.
Pierre, come un Budda contemporaneo, sembra eliminare sempre di più i suoi bisogni e i suoi desideri , arrivando ad uno stato quasi atarassico, compiendo un viaggio introspettivo alla scoperta di se stesso, nella sua dimensione più essenziale.


Abbiamo parlato dei contenuti narrativi, ma strettamente collegato ad essi troviamo l'aspetto grafico, in particolare l'uso del colore. Le tavole di Saulne sono molto precise e ricche di particolari. Gli ambienti sono delineati con uno stile molto realistico, che permette di farci apprezzare a pieno le archittetture e l'atmosfera cittadina di Shangai. Anche i personaggi sono molto ben caratterizzati graficamente, strizzando l'occhio, soprattutto per le linee dei volti, ad uno stile tipicamente orientale, ma non risultando mai eccessivamente stilizzati. Tuttavia, come ho accennato prima, una delle principali peculiarità grafiche di quest'opera risiede nella colorazione. Nella prima parte, infatti, le tavole brulicano di colori scargianti e vivaci. Si respirà la mondanità della situazione, la meraviglia delle attrazioni e del lusso sfrenato. Ma andando avanti nella vicenda, man mano che Pierre si allontana da quel mondo fatto di luci e palazzi imponenti, anche i colori si fanno sempre più minimali, fino ad arrivare all'utilizzo della sola gamma di grigi. I colori ci parlano di quello che le parole non riescono ad esprimere, sono il simbolo del processo di scavo e sottrazione che ha portato all'eliminazione di tutto ciò che è superfluo, arrivando a raschiare il fondo dell'esistenza, quella base che fa parte di tutti noi, perchè è ciò di cui non ci possiamo liberare ed è ciò che ci contraddistingue. Il nostro cervello, le nostre viscere e le emozioni più basilari che derivano dal nostro essere calati nel mondo.


Per concludere, "Non costa niente" è un buon fumetto, che prova a mostrarci quanto sia difficile riappropriarsi di se stessi ed entrare in contatto con la propria dimensione essenziale, dopo che ci si è allontanati da esse in modo così estremo, partecipando a pieno al vortice del consumo e della modanità. Inoltre, l'opera di Saulne, risulta efficace nel mostrare la dicotomia di condizioni e visioni esistenziali che popolano una metropoli controversa e così squilibrata come Shangai, avvalendosi di una realizzazione grafica molto precisa e dettagliata.


domenica 1 giugno 2014

Arcadi

Una nuova casa per il design.


Lo scorso 8 Maggio sono stati conclusi i lavori di selezione del concorso di idee per la realizzazione del nuovo Museo del Compasso D'oro. Il concorso indetto lo scorso anno, frutto della collaborazione tra il Comune di Milano e ADI, Associazione per il Disegno Industriale, riguarda la realizzazione degli nuovi spazi per la sede dell'ADI, in porta Volta, nell'area ex Enel tra via Cenisio e via Bramante. Il progetto, la cui realizzazione è previsto entro il 2015, ospiterà la collezione permanente storica del prestigioso premio, ovvero gli oggetti raccolti dal 1954 ad oggi. Lo spazio aperto al pubblico è destinato a diventare la "casa milanese del design", fulcro e raccolta di ispirazione per progettisti, studenti ma anche appasionati e curiosi. 




Il progetto scelto tra i tre selezionati per l'accesso alla seconda fase è stato Arcadi, presentato da Ico Migliore, Mara Servetto e Italo Lupi.
La Giuria, composta da Cino Zucchi (presidente), Luisa Bocchietto, Giovanni Cutolo, Michele De Lucchi, Arturo Dell'Acqua Bellavitis, Mario Mastropietro, Enrico Morteo, lo ha premiato all'unanimità perché “risponde al tema con un'idea sintetica di grande forza. Un chiaro concetto espositivo di 'archivio attivo' valorizza l'intera collezione, nella sua presenza fisica e nella possibilità di scegliere diversi approfondimenti tematici agli oggetti stessi e alla loro storia progettuale. Il progetto sfrutta al massimo le potenzialità dello spazio esistente, rispettandone l'impianto architettonico riletto in funzione del programma dato, anche in rapporto alla distinzione tra collezione permanente ed eventi allestitivi temporanei" (dal verbale della giuria).
Il concept alla base del progetto è quello di un archivio facilmente  consultabile ed accessibile, come sostengono i progettisti stessi: "Il museo è concepito come una sorta di Arca, dove conservare e fa vivere tutte le specie di qualità del design italiano. Preservando la suggestiva navata storica della ex-centrale elettrica, l'intera Collezione popola le pareti con leggerezza di segno e forte sinergia tra luce naturale e artificiale." Un database permette ai visitatori di selezionare ed illuminare oggetti singoli o porzioni di oggetti a seconda di specifiche tematiche, anni o tipologie, consultanto la documentazione relativa ai tavoli. 


Il progetto è stato accolto molto positivamente dalle amministrazioni locali ed a questo proposito l'assessore alle Politiche del Lavoro, Ricerca, Università Moda e Design, Cristina Tajani dichiara: "Grazie a questo progetto Milano avrà un luogo che permetterà a studenti, architetti e semplici appassionati di tutto il mondo di ammirare, conoscere e scoprire la grande tradizione del disegno industriale italiano grazie a una collezione di oggetti e prodotti unici che hanno segnato e influenzato lo stile unico del Made in Italy, capace di coniugare innovazione, ricerca e gusto. [...] Un’opportunità importante che ha permesso a un gruppo di architetti milanesi di confrontarsi con un progetto significativo per lo sviluppo della città dell’intera zona, proponendo non una semplice spazio ma una realtà polifunzionale aperta alle diverse associazioni presenti in zona favorendo così quella inclusività e partecipazione che sono alla base della crescita di Milano."
Questo progetto rappresenta inoltre le radici che il design ha nel territorio milanese ed in generale Italiano. Più di 300 oggetti che hanno scritto la storia di questa disciplina trovano finalmente un luogo, un posto all'interno di una delle città più floride dal punto di vista creativo progettuale. 
Il lavoro di Migliore, Servetto e Lupi non può che enfatizzare questo intento interazionale, istruttivo e di valorizzazione del design, spesso considerato come il fratello minore dell'architettura, ma che in Arcadi trova il suo spazio e la forza per comunicarsi al pubblico in modo diretto, semplice ed efficace.