sabato 28 settembre 2013

Essex County

Jeff Lemire mette in scena una grandiosa epopea famigliare che, attraverso la persistenza della memoria e del ricordo, ci fa riflettere sulle relazioni umane, sul dolore, sul rimorso, sull'amore e la riconciliazione. Un capolavoro che non può che restarci dentro a lungo, come "i fantasmi" dei suoi protagonisti.



Spesso pensiamo il tempo come una linea retta, qualcosa di divisibile e misurabile al pari dello spazio in cui siamo immersi. Spesso pensiamo in questo modo anche il nostro tempo, quello interiore, quello in cui risiede la nostra coscienza. Tendiamo a spazializzare la nostra interiorità e così crediamo di lasciarci indietro il passato con il passare dei giorni, dei mesi e degli anni così come fa un maratoneta intento a proseguire la sua gara e a lasciarsi alle spalle i metri di asfalto già percorsi. Ma il tempo interiore non è così, il tempo interiore sembra comportarsi diversamente. 
Con due immagini molto azzeccate Henry Bergson ha paragonato il nostro tempo ad un gomitolo o ad una valanga: arrotolando il filo di lana su se stesso cresce il gomitolo e, man mano che esso cresce, c'è sempre più filo che si aggiunge senza però che quello precedente scompaia. Esso, infatti, resta solamente nascosto dal nuovo filo e il gomitolo, nella sua interezza, non potrebbe esistere senza quel filo racchiuso in precedenza. Nello stesso modo la valanga nasce dal distaccamento di una certa quantità di neve, che inizia a rotolare, accumulando sempre più neve senza che quella di partenza venga persa. Nel tempo reale, quello vissuto, quello della coscienza, non c'è mai nulla che viene perso.
Perchè iniziare un'articolo su un fumetto con una riflessione di questo tipo? La risposta sta nel fatto che parlare di Essex County di Jeff Lemire, un tomone di 500 e passa pagine pubblicato dalla panini ad Aprile di quest'anno, vuol dire, a mio avviso, fare i conti innanzitutto con il nostro tempo vissuto e il suo perenne intreccio di memoria e coscienza.
Jeff Lemire, canadese, classe 1976, con quest'opera rende omaggio alla contea di Essex in Ontario, il suo luogo di nascita. Essex County si compone di tre racconti intitolati rispettivamente : "I racconti della fattoria", "Storie di Fantasmi", "L'infermiera di Campagna", che inizialmente erano stati pubblicati in tre libri separati.
Il primo racconto ci presenta Lester, un ragazzino con una gran passione per i fumetti e i Supereroi, cresciuto nella fattoria di suo zio Kenny dopo la morte della madre. Lester porta sempre un mantello e una maschera, proprio come un supereroe, ed è in attesa di una misteriosa invasione aliena. Lester si diverte anche a giocare al fiume con Jimmy, un ex giocatore di Hokey che ora gestisce un negozio.
Il secondo racconto ci narra invece la storia di Vince e Lou attraverso i dolorosi e confusi ricordi di quest'ultimo. Vince e Lou, fratelli inseparabili, formavano un team formidabile nella squadra di hokey dei Grizzlies, ma poi saranno divisi dal comune amore per Beth, dal richiamo della fattoria di famiglia e dal sogno di sfondare nella NHL, fino a diventare due anziani solitari e risentiti.
L'ultima storia segue invece le vicende di Anne, che vive sola con suo figlio, si occupa degli anziani della contea e ha uno oscuro passato alle spalle.





Tre storie apparantemente distinte, ma che in realtà aprono lo sguardo su un'unica rete di relazioni familiari che, come l'abero che fa da sfondo alla copertina, affonda le sue radici nel terreno comune della Contea di Essex, vero protagonista silenzioso e pervasivo di tutta la Graphic Novel.
Lemire, come dice bene Darwin Cooke nella sua prefazione, sembra "un uomo tormentato", nel senso che dalle sue pagine si estrinseca costantemente un insieme di ricordi, che come un leggero moto magmatico affiorano per un attimo alla consapevolezza per poi rimescolarsi nel flusso interiore, rivelando a sprazzi i caratteri esistenziali delle tipologie umane. Ci sono dolore, malinconia e rimpianto, ma l'autore non si lascia mai andare alla melodrammaticità mielense, non c'è mai esagerazione e proprio per questo le sue storie ci smuovono nel profondo e ci restano dentro come elementi della nostra vita quotidiana. Con uno stile di narrazione semplice e fluido, Lemire, fa partire le vicende da eventi innoqui e apparentemente sconnessi tra loro, inserisce il lettore in storie di vita comune apparentemente prive di ogni rilevanza, ma che nel quadro complessivo vanno ad alimentare un precipitato di frammenti che acquista significato e in questa sua capacità, così cristallina e toccante, non ha nulla da invidiare a Raymond Carver o a Richard Ford.
I dialoghi sono scarni e minimali, ma c'entrano sempre il bersaglio, preparandoci a silenzi toccanti dove sono i "fantasmi della memoria" a "parlare" attraverso immagini sfuggevoli, sovrappossizioni di elementi percettivi effimeri  e nostalgici, che guidano il flusso interiore dei protagonisti e ci conducono nei meandri delle loro esperienze passate, piano piano, fino a scoprire quel filo nascosto di cui ci parlava Bergson.




Lo stile di disegno di Jeff Lemire è molto particolare. Aprendo il volume per la prima volta si ha l'impressione di trovarsi davanti ad uno Storyboard: le figure sono appena schizzate, caratterizzate da un tratto sfuggente, stilizzato e sporco basato su un forte contrasto tra bianco e nero di grande impatto visivo. Le inquadrature e le sequenze narrative sono efficacissime e originali, la narrazione, in questo modo, strizza costantemente l'occhio alla produzione cinematografica. Lemire, infatti, ad esempio, sceglie toni più chiari quando ci mostra i ricordi che affiorano per breve tempo nella mente dei personaggi, dandoci l'impressione di esperienze sfocate, proprio come in alcuni film dove le sequenze di ricordo o di sogno hanno atmosfere meno nitide rispetto alla realtà presente della vicenda. Inoltre fa un utilizzo ripetuto del primo piano a stringersi, proprio come lo zoom della macchina da presa, che si avvicina progressivamente ad un particolare, per esempio gli occhi di un personaggio, per poi trasfigurarlo nella sequenza successiva, segnando spesso la transizione a tempi di versi della vicenda e guidando il passaggio narrativo con fluidità e grande trasporto emotivo. Questa abilità di padroneggiare così sapientemente il medium fumettistico, facendolo intrecciare funzionalmente con altri linguaggi espressivi permette all'autore di suscitare nel lettore gli effetti emotivi desiderati rapendolo con dolcezza negli stati d'animo dei protagonisti. 





Le soluzioni grafiche dell'autore, oltre ad essere eccellenti per la narrazione, ci restituiscono in modo veramente meraviglioso l'atmosfera della sua terra natale, che, come ho già detto, può essere considerata il grande protagonista dell'opera. Le fattorie, i laghi ghiaggiati, le partite di Hokey, il freddo, la neve, le distese rurali e le città grandi città a cui si contrappongono, tutto viene impresso come uno scenario mitico, dove i personaggi si muovono e intrecciano le loro storie.
Per concludere, Essex County, è un'opera grandiosa, lo dimostrano tutti premi che ha vinto, il fatto che sia stata inserita nei romanzi fondamentali della letteratura canadese del decennio, ma soprattutto lo dimostra il fatto che, una volta ultimata la lettura, le sue immagini e le sue emozioni continuino a riaffiorare davanti agli occhi e alla mente, come fantasmi che ormai fanno parte della nostra memoria e non se ne andranno mai, nonostante lo scorrere del tempo, degli spazi e degli eventi.




martedì 24 settembre 2013

Mutty si presenta

Un centro polifunzionale dove arte, cultura e persone possano interagire ed arricchirsi reciprocamente. 


"Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere tutto quello che si vuole, colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose... La semplificazione è segno di intelligenza". 
[Bruno Munari]



Il 22 Settembre presso Castiglione delle Stiviere è stato inaugurato Mutty. La partenza promette già bene e vanta un carnet di eventi per i prossimi 4 mesi vari ed interessanti, che spaziano tra mostre e laboratori. 
Il sito su cui sorge era in precedenza occupato dalle officine Mutti, dal team di progetto è stato quindi deciso di mantenere il background culturale del luogo riprendendone il nome e l'estetica industriale. 



Gli interni si dividono essenzialmente in 3 macro aree con un vano di distribuzione centrale che configura 4 stanze. Al piano terra troviamo il Book Shop e la Caffetteria. Il primo vanta una scelta davvero ricercata di proposte letterarie che coprono varie aree di interesse. Un'ampia sezione è dedicata ai libri per i più piccoli, questa scelta si lega indiscussamente alle varie attività laboratoriali che Mutty propone. Una vasta area è dedicata alle opere di Munari, attualmente in mostra al piano superiore. Inoltre troviamo molte graphic novel, fumetti e libri illustrati. Protagonisti in questo spazio risultano quindi i libri d'arte, design, architettura e linguaggi visuali. Un piccolo spazio è invece dedicato a gadget ed accessori. Particolarmente interessanti, in questa sezione, sono le lattine contenenti i semi di differenti piante firmate Mutty, un'iniziativa divertente ed ecologica!



Lo spazio caffetteria è arredato interamente con materiali di recupero industriale ed oggetti restaurati. Viene dato ampio spazio all'uso del ferro accanto al legno grezzo, richiamando quindi le officine Mutti. Bellissimo è il bancone della caffetteria assemblato utilizzando vecchi travi. I tavoli in ferro sono contornati da poltrone in pelle e sedie in legno anni '50 riveniciate con toni accesi e restaurate, questa varietà rende l'ambiente stimolante ed in rapporto continuo con il fruitore che è portato a scegliere il colore o la forma che più lo aggrada. In questo ambiente luminoso ed in contatto diretto con il giardino esterno tramite le ampie vetrate è stato ritagliato anche uno spazio per la musica dal vivo. In questo luogo infatti, durante l'inaugurazione, il gruppo New Adventures in Lo-Fi si è esibito facendo da colonna sonora all'evento. 
Al piano di sopra invece si trovano due sale dedicate a mostre e laboratori. L'essenzialità caratterizza questi spazi minimi e molto luminosi, che si prestano ad accogliere le più svariate iniziative proprio per la loro semplicità. 



Attualmente in mostra in questo luogo vi è la Mostra Collettiva su Munari organizzata da Corraini Arte Contemporanea ed edizioni. I materiali proposti sono molteplici e tutti molto interessanti, frutto di una collaborazione longeva e fruttifera tra l'autore e la galleria d'arte e casa editrice Corraini. Per questa, infatti, egli aveva anche eseguito un intervento grafico sul logo. Non poteva esserci autore più azzeccato ad inaugurare uno spazio come questo, mosso da una forte propensione verso l'esterno, la città ed i bambini. La figura di Munari non si può di certo etichettare, egli nella sua vita è stato un designer, un artista, un insegnante, un educatore, insomma, un intellettuale eclettico e creativo. Proprio la creatività sta alla base delle sue opere e della sua propensione al mondo dell'infanzia e del gioco. In tutti i suoi lavori si legge quella componente ironica e vitale che pervadeva la sua persona. Un uomo capace di trasformare gli oggetti quotidiani più semplici in qualcos'altro, qualcosa di emotivo, divertente e ludico. Emblematiche in questo sono le Forchette Parlanti esposte in questa occasione, di cui l'autore stesso dice "sono un gioco, una specie di ginnastica mentale, come quella che faccio con i bambini". Accanto a queste troviamo esposti i libri per l'infanzia e gli studi di oggetti a partire dalle forme naturali e gli organismi cellulari. Ci viene offerta una panoramica efficace del "creativo" e "intellettuale" Munari attraverso le sue produzioni, mai troppo letterarie, e i disegni. Possiamo quindi toccare con mano il libro illeggibile che forse illegibile poi non è ed i libri della serie MN.
La presentazione di Mutty, con la mostra inaugarale su Munari, non può che sembrarci perfettamente coerente con le attività proposte da qui in avanti. Uno spazio semplice, capace di accogliere le molteplici sfaccettature della costellazione artistica proprio in funzione di questa semplicità. Uno spazio per vedere, ma anche per fare, partecipare e collaborare. 

Foto tratte dalla pagina facebook di Mutty:
Mutty pagina facebook
http://mutty.it/

Sito Corraini: http://www.corraini.com/


Il tocco rassicurante del fango


 Il primo romanzo di Mikael Compo




Il 4 settembre è uscito " Il tocco rassiccurante del fango" il primo ebook scritto dal nostro collaboratore e amico Mikael Compo. Mikael ci ha gentilmente fornito una copia del suo libro e così abbiamo avuto il piacere di poterlo leggere per poi esprimere la nostra libera opinione al riguardo e per questo lo ringraziamo molto.
Partiamo dalla trama. Il protagonista della vicenda è Andrea, un ragazzo appena diciannovenne, che si sta affacciando timidamente al mondo degli adulti partecipando con molte perplessità ai primi colloqui di lavoro. Da qualche tempo il ragazzo ha degli strani sogni a cui non riesce a dare nessuna spiegazione. Queste visioni oniriche lo turbano e sembrano portarlo ad una riflessione interiore che lo conduce verso la scoperta di emozioni e ricordi sopiti nel profondo di sè.
Presto veniamo a sapere che Andrea ha perso il padre, un artista talentuoso, che ha lasciato il suo negozio d'arte alla famiglia, ma che ora, a causa della poca richiesta commerciale, sembra costretto ad essere chiuso. 
Andrea ha anche un caro amico, un haker di nome Peter, che lavora in un minimarket, ma sogna di inventare un programma che lo renda famoso. I due passano parecchio tempo insieme, nonostante siano molto diversi, e Peter continua a parlare ad Andrea del suo programma e del suo progetto legato ad una trasposizione in 3D dello spazio informatico e virtuale.
Ad un certo punto della vicenda accade una cosa improvvisa: la madre di Andrea riceve una lettera da un giovane tedesco, Hans Hammer, intenzionato a comprare le opere del padre del protagonista. La donna è quindi costretta a partire immediatamente per Lipsia, lasciando Andrea al negozio.
In questi giorni inquieti e incerti, Andrea conoscerà Anita, una ragazza bella e gentile, amante della lettura e aspirante poetessa, con la quale stringerà un'ottima amicizia.
Non volendo svelare ulteriori elementi della trama, posso dire soltanto che questo reticolo di personaggi ed eventi farà da base per una storia che si svolgerà tra toni intimistici e riflessivi da romanzo di formazione e tinte più frammentarie e oniriche quasi da triller psicologico, portandoci a scoprire il passato di Andrea, le relazioni più intime della sua famiglia e, in seguito, le motivazioni dietro ai suoi inquietanti sogni.
Il primo lavoro di Mikael Compo parte da un'idea interessante, mischiando da subito generi e strade differenti. I personaggi introdotti si prestano ad una possibile analisi profonda, aprendo il campo a realtà esistenziali differenti. 
Andrea è l'immagine del ragazzo che si affaccia all'età adulta, insicuro e disilluso, che lotta ogni giorno con le sue paure, le sue emozioni, con i ricordi di un passato tormentato e che, tuttavia, cerca una strada per andare avanti e realizzare se stesso. Anita invece è la ragazza attiva e creativa, capace di guardare dentro al cuore di Andrea e indicargli una possibile via da intraprendere insieme. Poi c'è Peter, immagine del ragazzo "strano" e introverso, che vive quasi una doppia vita, alienato tra un lavoro che non è il suo e la sua identità di haker, in un mondo fatto di codici e programmi informatici.
L'idea di partenza è quindi, a mio parere, buona e ricca di interesse. Il problema principale del "Rassicurante Tocco del Fango", secondo me, sta nella sua brevità e sbrigatività. In che senso? Nel senso che in poco tempo gli episodi si susseguono e si sviluppo lasciando le tante strade aperte un pò tronche oppure chiudendole bruscamente. Come conseguenza di tutto ciò i personaggi risultano un pò appiattiti nella loro caratterizzazione e tutto quello che sembrerebbe avere una forza propulsiva per spingerci ad andare più a fondo, in realtà finisce per mantenerci in superficie. Questo è un peccato, perchè la trama e il reticolo di interpreti creato da Mikael è davvero interessante e il lettore vorrebbe riuscire a calarsi nel suo mondo molto più approfonditamente.
Per lo stesso motivo ritengo che l'idea del finale (di cui non dico nulla, per non spoilerare) risulta spuntare all'improvviso, dando un' impressione di "essere appiccicata" rispetto a quella, più auspicabile, del colpo di scena. Questo, a mio parere, è l'esito di una mancata crescita graduale della tensione, che avrebbe dovuto portare avanti tutti i filoni narrativi fino a farli esplodere in un finale a sorpresa, come del resto è quello ideato dal buon Mikael che però, per questi motivi, non riesce ad esprimere a pieno la sua efficacia.
"Il Tocco Rassicurante del Fango" è un'opera ambiziosa nella sua costruzione e concezione e per questo si può certamente scusare Mikael, che tra l'altro nasce come poeta, se nel suo dispiegamento non riusciamo a trovare tutta quella profondità auspicata da un incipit così complesso. Riuscire a portare avanti così tante strade, a sviluppare così tante prospettive, a mischiare arie narrative e letterarie differenti in così poche pagine e per giunta alla prima opera, non era davvero facile. 
Per concludere, il romanzo resta comunque una lettura piacevole e scorrevole, dotata di uno stile semplice e schietto. Un esordio onesto e sincero da cui, giustamente, non ci si può aspettare troppo, ma che fa ben sperare per le prossime produzioni.

sabato 21 settembre 2013

Cinquemila Chilometri al secondo

Tre ragazzi, tre storie, tre mondi che si intrecciano attraverso i disegni e soprattutto i colori fortemente espressivi di Manuele Fior. 

 




Appena ho preso in mano questo libro ne sono rimasta fortemente affascinata, ho scorso velocemente le pagine ed un turbine di colori mi ha avvolto e con esso una miriade di sensazioni inconsce ed inspiegabili. Cinquemila Chilometri al secondo è un'opera che colpisce dritta all'anima, diretta allo stomaco. 
Frammentata nello spazio e nel tempo ricostruisce le vite di tre ragazzi attraverso stralci di memoria, attimi, sogni, luoghi in cui dall'esterno il lettore può sbirciare. Le parole sono essenziali, mai troppe, il numero esatto poichè le immagini parlano spesso da sole, non solo per comunicarci gli eventi che vanno dall'adolescenza all'età matura, ma sopratutto per immergerci in sensazioni, ansie, paure e gioie. 



Il primo frammento risale all'adolescenza, l'incontro tra i tre giovani Pietro, Nicola e Lucia. Fin da subito emerge il tema del viaggio, Lucia sta infatti traslocando con la madre dopo la separazione dei genitori. Da qui all'improvviso voliamo ad Oslo con Lucia, poi in Egitto con Pietro e li vediamo crescere, non sappiamo quanto tempo sia trascorso, cosa sia successo nel frattempo, ma non è importante perchè tutto emerge attraverso il loro comportamento. Solo la pioggia sembra scadenziare il passaggio del tempo e così tra una sequenza e l'altra troviamo prima una, poi due, tre, quattro, cinque gocce che ci portano ad un temporale, la fine del nostro sbirciare nelle vite altrui. Ci viene regalato un'altro piccolo spezzone, un ricordo di giovinezza solo narrato attraverso la voce di Lucia in precedenza.
In questa storia di viaggi, spostamenti e radici ci sentiamo molto vicini e partecipi, perchè rispecchia la condizione delle generazioni attuali. Pietro e Lucia, brillanti studenti si trovano a dover lasciare la propria casa per perseguire le proprie carriere ed i propri studi. Nicola, invece, dopo la maturità entra nell'impresa famigliare ed inizia a lavorare nel magazzino del padre, rimanendo quindi tutta la vita ancorato alle proprie radici, come in attesa del ritorno di Lucia. L'autore riesce tuttavia a farci percepire perfettamente i problemi e le paure del distacco, del vivere in un posto che non si sente di possedere. Lucia infatti decide di spostarsi per gli studi ad Oslo essenzialmente per fuggire, per sentirsi libera da una situazione che non era in grado di affrontare, lascia così al tempo il compito di logorare la propria relazione con Pietro. Tuttavia la felicità che troverà sarà solo momentanea e presto sentirà il bisogno di tornare a quella che lei chiama realmente casa, anche se come dirà lei stessa "peggio di partire, c'è solo tornare". Il viaggiare di Lucia è più che altro un fuggire di fronte ai problemi o alle decisioni difficili. Molto differente è invece Pietro, il quale va in Egitto come archeologo. La sua è una carriera brillante che lo porta a stare lontano dalla famiglia in una terra che tuttavia non può appartenergli. Si trova inoltre ancora legato a Lucia che, nonostante il passato, non riuscirà mai a dimenticare totalmente. Questa situazione lo porta ad essere come in un limbo, è infatti ormai scisso dal paese natio, ma non può comunque appartenere a quello ospitante, dove è sempre visto come estraneo, si trova quindi senza una vera "casa". Questa situazione potrà solo essere mitigata attraverso il trasferimento di tutta la famiglia in Egitto, ma mai risolta.
Dal punto di vista grafico sicuramente quest'opera risulta particolarmente interessante. Le sequenze sono scandite dal cambio dei colori così come i cambiamenti di luogo o tempo. Inoltre le scelte cromatiche puntano maggiormente sull'emotività rispetto al realismo. Il sogno viene così realizzato attraverso l'uso di tinte monocromatiche ed ambientazioni metafisiche che ci rimandano ai quadri di De Chirico. In questo modo siamo subito coscenti dell'irrealtà della situazione senza l'uso di parole o spiegazioni. 



Anche gli altri spezzoni utilizzano un numero limitato di tinte che si accostano attraverso macchie di colore sulle tavole. Non possiamo non fare caso all'influenze della corrente italiana macchiaiola e di Cezanne, in particolare le serie di dipinti del Monte Sainte Victoire con le campiture piatte e le sue scelte cromatiche, su questo stile di rappresentazione. Inoltre il tratto molto spigoloso non può non farci rivedere alcuni tratti picassiani. Gli occhi in particolare dei ragazzi riportano alla mente i volti cubisti di Picasso. Nelle scene notturne sembrano emergere nell'uso dei colori e nella deformazione dei volti le influenze dell'espressionismo tedesco. Infine nella sequenza che si svolge in Egitto, realizzata tutta attraverso l'uso delle ocre, i verdi e i marroni si vede una certa affinità con i dipinti del periodo tahitiano di Gauguin, viene sottolineata quindi l'esoticità del posto ed in un certo senso la distanza dalle proprie radici culturali.



Il libro che ci propone Manuele Fior è quindi il dipinto di una generazione precaria anche negli affetti oltre che nel lavoro e nei luoghi. In bilico tra la fuga dalle proprie radici e la ricerca di una solidità famigliare. 

mercoledì 18 settembre 2013

Severed


Nel 1916 uno spietato serial killer dai denti affilati come rasoi terrorizza le strade d'america, un ragazzo vagabondo sogna di rincontrare suo padre, ma non sa che il sogno sta per trasformarsi in un incubo. Un horror solido e coinvolgente dalla penna di Scott Snyder e Scott Tuft e la matita di Attila Futaki







Con l'horror ho sempre avuto un rapporto ambivalente. Da un lato l'immaginario horror, con la sua tensione, la sua suspence, il suo smuoverti le budella con quella strana fisarmonica tra attrazione e repulsione, mi ha sempre affascinato. Infatti ho da sempre amato i film di Carpenter, quelli del primo Sam Raimi, di Hitchcock, di Romero, di Cronenberg, di Craven, le migliori trasposizioni di King e in letteratura mi pacciono Edgar Allan Poe, Lovecraft e Lansdale anche quando si lascia andare, appunto, a tinte più orrorifiche. Credo quindi che l'horror possa essere un genere dove sia possibile creare racconti, opere e immagini artisticamente valide e tanti altri autori, oltre a quelli che ho fugacemente citato, lo hanno ampiamente dimostrato. Tuttavia l'horror molto spesso mi annoia, lo trovo banale e molte volte, soprattutto in ambito cinematografico, la ripetizione e proliferazione a bassa qualità dei clichè del genere, ormai sedimentati, produce risultati poco coinvolgenti e artisticamente pessimi. Questo fa sì che ogni volta che mi accingo a leggere o a guardare un'opera horror parta sempre un pò prevenuto, per timore che sia "la solita storia horror" e che per giunta non faccia nemmeno paura. Con Severed, fumetto scritto a quattro mani da Scott Snyder e Scott Tuft e disegnato da Attila Futaki, per fortuna non ci troviamo di fronte ad un horror becero, ma ad un opera solida, coinvolgente e di qualità.
La  narrazione si apre con Jack Garron, un anziano nonno americano negli anni 60, che riceve per mano di suo nipote una lettera da un uomo sconosciuto. Alla sua lettura, Jack, come spaventato da qualcosa che riemerge terribile dal passato, si agita ed esce di casa. A questo punto, parte un lungo flashback che ci svelerà la storia che sta dietro alla reazione di Jack alla lettera.





Siamo nel 1916, Jack Garron è un dodicenne che suona il violino e scopre di essere stato adottato, sa che suo padre è un musicista vagabondo e si mette in testa di cercarlo. Jack si mette in viaggio nelle immense lande americane, spostandosi clandestinamente sui treni merci alla maniera degli hoboes e compie varie peregrinazioni, non prive di difficoltà. Il ragazzo continua a viaggiare fino ad incontrare Sam, una ragazza che si finge un maschio per evitare di essere molestata durande i suoi vagabondaggi. I due diventano subito inseparabili e decidono di muoversi insieme alla ricerca del padre di Jack tra locali fatiscenti, esibizioni stradali con il violino e i consueti treni merci. Proseguendo nella vicenda i due sono avvicinati da un uomo che sembra interessarsi a loro, nonostante i suoi modi siano un pò strani, i due ( soprattutto jack) decidono di fidarsi. Nel frattempo un inquietante anziano con denti affilati come rasoi terrorizza le strade d'america, un serial killer spietato che si ciba di ragazzini. Questo sarà solo l'inizio di una discesa infernale verso il terrore che segnerà per sempre la vita di Jack, recidendone ( Severed) in modo irrimediabile l'infanzia ( e non solo).






Snyder e Tuft scrivono una storia cupa e attraente, delineano bene i protagonisti e aprono gradualmente scorci sulla minaccia incombente, che a poco a poco si fa sempre più vicina ai due protagonisti. Il lettore è avvolto in un crescendo di suspense e tensione e non può far a meno di attendere con ansia l'esplosione della violenza da parte di un nemico mostruoso che, pur essendo sempre presente in sottofondo, resta per molto tempo in disparte dalla vicenda principale. Si può dire che Severed sia un horror di vecchia scuola, l'impianto è classico e già da subito immaginiamo a cosa sta andando incontro Jack, tuttavia il forte taglio cinematografico, i dialoghi curati e l'ottimo bilanciamento nel controllare la minaccia della violenza e la sua effettiva espressione ne fa un'opera che riesce comunque a coinvolgere fino alla fine. 
A mio parere è interessante vedere come Severed ci rappresenta il male. Il cattivo, il vecchio efferato cannibale, sembra essere qualcosa di eterno, ineludibile e inarrestabile, è una forza quasi metafisica che si manifesta e si ritrae a sprazzi per poi uscire allo scoperto in una deflagraziione di atrocità e violenza. Il racconto horror, come in certi film di Carpenter, diventa un espediente per far affiorare le devianze, le perversioni e l'orrore che serpeggiano nel lato oscuro della nostra società e, in particolare in questo fumetto, nel sogno americano.






Infine, a rafforzare maggiormente la suggestività di Severed, ci sono i bellisimi disegni di Attila Futaki. L'autore con uno stile ombroso e tenue, dalle tinte fosche e crepuscolari, fa prendere forma all'america degli anni venti con le sue strade fumose, le sue sterminate campagne, i treni merci in corsa e gli interni lignei scricchiolanti e impolverati, offrendoci tavole dalla grande potenza visiva ed evocativa.
Per concludere, Severed è un buon fumetto, consigliato sicuramente agli amanti dell'horror, ma anche a chi fosse soltanto interessato a leggere una bella storia dall'impianto classico e solido, creata con grande maestria e rigore formale.

domenica 15 settembre 2013

MY platform

Un sistema d'arredo che ponendosi sulla linea progettuale di Joe Colombo esalta il ruolo centrale ed attivo del fruitore all'interno dello spazio abitativo.





Il progetto My Platform nasce a partire da uno studio condotto nel laboratorio di sintesi finale della facoltà di Design al Politecnico di Milano. Il tema assegnatoci riguardava l'accoglienza all'interno dei centri di seconda accoglienza per rifugiati politici.
Le problematiche evidenziate da cui nasce il progetto sono essenzialmente due. Da un lato è stato notato che nei centri lo spazio è spesso limitato, ci si trova infatti a non avere spazi per poter compiere differenti attività o rispondere a situazioni di emergenza, dall'altro in questi spazi devono convivere persone che provengono da culture radicalmente differenti che hanno usi e costumi decisamente diversi.
All'interno di questo panorama il punto di partenza pratico è stata una domanda apparentemente banalissima: Come posso io fornire un elemento di arredo capace di rispondere in modo universale e sovraculturale al bisogno di mangiare? Da questa prima questione mirata il campo è stato allargato pensando ad una serie di componenti che rispondessero a tutte le funzioni abitative primarie in modo sovraculturale.
Questi sono quindi i presupposti contestuali da cui si sviluppa MY platform. Un sistema nato da un contesto specifico, ma sviluppato successivamente con vedute di applicazione più ampie. Pensando quindi a tutti quegli ambienti pubblici o privati dove lo spazio è limitato rispetto alle funzioni e dove la componente ludica, emergenziale e sovraculturale possa essere importante.
Dal punto di vista progettuale il sistema risente fortemente dell'influenza del lavoro di Joe Colombo, fantastico designer degli anni '50/'60, le cui opere risultano estremamente attuali e contemporanee ancora oggi. Lavori come il "Sistema programmabile per abitare" evidenziano come la supremazia dell'architettura nella definizione spaziale sia ormai cosa superata. L'arredo, ovvero il contenuto, può e deve essere esso stesso il plasmatore e creatore di spazi attraverso la sinergia instaurata con il fruitore. L'apparato architettonico deve essere ridotto ad un mero contenuto che si rivolge all'esterno nel tessuto urbano, l'interno può essere tranquillamente un aperto open-space dove l'arredo diventa protagonista creando spazi e funzioni.
Questo è anche l'intento del progetto preso in esame che per attuare questa suddivisione spaziale predilige la dimensione orizzontale. Gli elementi base del sistema sono essenzialmente 5 piattaforme di differenti altezze, assemblabili attraverso magneti, impilabili e riponibili, inoltre ognuna di esse ha caratteristiche specifiche che consentono la risoluzione di determinate necessità. 



La Piattaforma Base e la Piattaforma Contenitore costituiscono gli elementi basilari del sistema. La prima consente di creare pedane, aree rialzate mentre la seconda oltre a costituire piani di seduta permette di avere vani adatti allo stoccaggio. Entrambe in caso di necessità possono creare letti di emergenza grazie all'uso dei cuscini assemblabili anch'essi tramite magneti.

Modello in scala della Piattaforma Contenitore


La Piattaforma Tavolino contiene due cassettoni che una volta estratti possono costituire essi stessi le panche dove sedersi. I cassetti costituiscono anche ottimi vani per lo stoccaggio quando la piattaforma è chiusa, potendo quindi costituire anche i comodini in un assetto notturno, mentre una volta estratti mantengono comunque la possibilità di fornire vani per il deposito di oggetti mentre si è seduti al tavolino.

Modello in scala della Piattaforma Tavolino

La Piattaforma Tavolo segue la logica del blocco precedente, tuttavia contiene 8 cassetti, 4 dei quali volti a costituire le sedute mentre gli altri 4 tramite le guide telescopiche sono in grado di fornire un adeguato spazio per le gambe in caso di uso del tavolo come scrivania. 

Modello in scala della Piattaforma Tavolo

Infine l'ultimo elemento è la Piattaforma Banco-Espositore. Questa è utilizzabile come banco da lavoro grazie ai 4 sgabelli estraibili, ma essendo facilmente impilabile, può anche costituire un sistema di divisione dello spazio, creando una serie di vani adatti all'esposizione di oggetti.

Modello in scala della Piattaforma Banco-Espositore



Questi 5 elementi possono costituire un modulo base capace di rispondere alle varie necessità con infinite combinazioni. Ne mostreremo solo 4 possibili che possano esemplificare la diversificazione delle esigenze a cui rispondono.


Zona giorno

Zona relax



Zona lavoro (tre tipologie di assetti)
 
Zona notte (due stanze)



(La prototipazione e tutti i modelli sono stati realizzati in collaborazione con la Falegnameria Ferrari_Piacenza)
  

venerdì 13 settembre 2013

Confidenze troppo intime

A volte nella vita basta una semplice porta sbagliata a cambiare tutto...





Un consulente fiscale, un giorno, dopo la fine dell'orario di lavoro, si trova davanti una cliente del tutto inaspettata. La donna, molto turbata, gli confida di avere una situazione parecchio difficile con il marito. Subito il fiscalista pensa ad un divorzio e si propone per il caso, ma dopo i primi momenti si accorge dell'enorme equivoco: la donna pensa di trovarsi davanti ad uno psicologo ed inizia a parlargli dei propri problemi di coppia. 
Data la situazione, William, avrebbe dovuto chiarire subito il malinteso, ma non ci riesce e si lascia trascinare dagli eventi fingendosi uno psicologo. Il trucco non può certo durare e scoperto l'inganno la donna si sente tradita e offesa, ma nonostante ciò decide di continuare questo rapporto. William rappresenta il perfetto ascoltatore, ciò di cui Anna ha bisogno date le poche attenzioni del marito, così, nonostante sia un perfetto sconosciuto, con lui riesce ad aprirsi totalmente. Dall'altra parte anche l'uomo riesce ad avvicinarsi alla donna e a confidarsi con lei. Quello che si instaura tra i due è quindi un rapporto biunivoco. Apparentemente è Anna quella bisognosa di aiuto, ma in verità i loro incontri diventano fondamentali per entrambi. William arriva perfino ad andare egli stesso dal famoso psicologo da cui sarebbe dovuta andare la donna, per poter capire come aiutarla. In modo delicato e velato viene quindi messa in discussione anche la figura dello psicologo come specialista nella comprensione dei rapporti umani. Queste due persone infatti riescono comunque ad aiutarsi a vicenda più di quanto una terapia psicologica possa fare. Lo dimostra un'interessantissima scena, nella quale Anna aiuta un paziente del dottor Monnier a riprendere l'ascensore dopo un grave trauma. Ciò che si evidenzia è come il rapporto reciproco sia efficente almeno quanto la terapia frontale (anzi, molto di più).



Il film è incentrato quasi totalmente sui due protagonisti, tuttavia alcuni personaggi di contorno sono comunque interessanti. Il marito di Anne, Marc, entra in scena in due differenti modi. Il primo, attraverso i racconti della donna, il secondo invece è fisico, ovvero si presenta nello studio di William essendo convinto della relazione tra l'uomo e la moglie. Anne approfitta della situazione per riaccendere il rapporto con il marito. Sulla base quindi di queste fantasie, iniziano una serie di processi mentali, nella mente di Marc, che ne evidenziano la complessità psicologica e le nevrosi date dalla sua concezione del rapporto moglie-marito. 
Dall'altra parte c'è Jeanne, ex moglie di William, che rimane comunque una figura importante della sua vita. La donna ne cerca continuamente l'approvazione e si trova profondamente legata all'ex compagno. Questo legame non le permette di rifarsi una vita e non la rende capace di rielaborare il fallimento della loro storia. 
Questi pochi personaggi si intrecciano e attraverso essi, il registra Leconte indaga i rapporti umani mostrandoci la complessità di relazionarsi, ma anche di affrontare se stessi, capire cosa si vuole e la realtà in cui si è immersi. Ci mostra la difficoltà di voltare pagina, di disancorarsi dalle certezze e seguire i propri sogni, la propria strada.  

 
Il finale è inaspettato, ma non troppo, ci ribadisce la necessità dei rapporti umani in primis l'amicizia. Tutto inoltre si chiude con una bellissima inquadratura dall'alto del nuovo studio di William sulla quale scorrono i titoli di coda.

mercoledì 11 settembre 2013

Home

Un film che ci parla della vita, della sua follia latente, del suo essere immersa in un mondo complesso e frenetico e, infine, della difficoltà di trovare un posto davvero degno di essere chiamato "casa".





Una campagna arida e brulla, una casetta un pò bruttina e scalcinata a lato di un lembo di autostrada incompiuto. Questo è il luogo dove vivono Marthe e Michel e i loro tre figli Julien, Judith e Marion. La famiglia sembra vivere in una dimensione surreale. Lontani dalla società moderna e frenetica, l'unico elemento che sembra legare i nostri protagonisti al mondo "abitato" è questa lunga lingua di asfalto, ideale per le corse in bici di Julien, partite di hokey casalinghe ed esuberanti volate sui pattini. La prima parte del film ci presenta i rapporti tra i componenti della famiglia, mostrandoci alcuni stralci della loro vita quotidiana. 
Marthe, casalinga a tempo pieno, ma vestita sempre a puntino, come se dovesse partecipare a qualche evento mondano,  passa gran parte della giornata attaccata alla radio, a cucinare e a badare ai suoi figli, soprattutto al piccolo Julien. Michel, padre di famiglia, esce alla mattina per andare al lavoro e torna alla sera, quale prfessione svolga non è specificato. In casa è un papà attivo e gioviale, protagonista di di tutti i giochi e le gag familiari. Judith, la figlia più grande, è una ragazza caratterizzata da un'estrema apatia, passa tutta la giornata sdraiata in giardino ad ascoltare musica e a prendere il sole. Marion, la figlia intermedia per età, sembra una ragazza estremamente intelligente, amante della lettura e dei numeri, ha un'ossessione scientifica e maniacale per l'igene e la prevenzione di possibili malattie. Julien, il figlio più piccolo, è un ragazzo turbolento e simpatico, sempre pronto a saltare in bici e a pedalare avanti e indietro sulla strada deserta davanti a casa.
Nonosante l'apparente tranquillità della situazione è come se percepissimo da subito una sorta di equilibrio precario che non tarderà molto per venir sconvolto.







Il quadro situazionale, infatti, cambia da un giorno all'altro quando l'autostrada, fino a quel momento inutilizzata, viene improvvisamente inaugurata. In poco tempo la tranquillità e il silenzio sono solo un ricordo e centinaia di macchine sfrecciano davanti alla casa di Marthe e Michel. Tutto diventa più difficile: attraversare la strada per andare a scuola o al lavoro, stendere i panni, stare in giardino, respirare, dormire tranquilli. L'autostrada è un elemento fortemente destabilizzante per la famiglia e piano piano affiorano forti tensioni interne. Sullo schermo sembra aleggiare l'ombra di una follia latente, di una situzione problematica precedente che la regista non ci esplicita ma ci fa intendere, attraverso gli sguardi e le azioni dei personaggi, attraverso alcune frasi. La commedia si fa dramma esistenziale, fino all'esplodere di una nevrosi che sembra quasi incontrollabile e che avrà bisogno di esprimersi in tutta la sua violenza per venir superata ( forse).






Home, primo lungometraggio di Ursula Meier uscito nel 2008, è un film che ci parla della qualità della vita e di quanto sia difficile trovare "una casa" dove sentirsi protetti e tranquilli. Ci mostra l'equilibrio precario dell'esistenza e dei  rapporti umani e di quanto sia facile far crollare tutto, cadendo in una spirale di incomunicabilità che finisce per spezzare le relazioni, anche quelle più forti, come quelle di una famiglia. L'autostrada è il simbolo dell'elemento esterno devastante, improvviso, ma perennemente presente in sottofondo, che irrompe prepotentemente anche nell'ambiente più difeso e apparentemente isolato dagli sconvolgimenti repentini della vita. I protagonisti si illudono di aver trovato una dimensione di felicità fiabesca e ovattata, ma il mondo li viene a riprendere e lo fa in un  modo crudele. La realtà e la sua confusione invade tutto, come un essere strisciante che si insinua in ogni piccola debolezza, incertezza, fessura e incrinatura dilatandola fino a farla sgretolare. Si può solo aspettare che questa follia si esprima e poi si plachi, per poter ricomporre i pezzi, uscire fuori dal guscio in cui si è cercato di proteggersi e andare avanti. Emblematica, a questo proposito, è una delle scene finali, dove in una casa barricata dai travertini, completamente isolata dal rumore esterno, dove, nel tentativo di ritrovare una calma perduta, manca perfino l'aria per respirare, Marthe rompe il muro a martellate, ritrovando la luce e la speranza dopo il buio e la disperazione più profonda.( ricordandomi, tra l'altro, la scena finale di un altro bellissimo film, Take Shelter di Jeff Nichols, diverso per estetica, ma per certi versi simile per tematiche).


 
Home è ambizioso, dall'aria assurda, ma girato con uno stile estremamente realista. Pur non essendo di certo un capolavoro è un film interessante, pieno di spunti di riflessione e di interpretazioni possibili, che non ci fornisce nessuna risposta precisa, ma ci fa calare, allo stesso tempo delicatamente e con forza, nella nevrosi maniacale che attraversa come un fiume sotto al ghiaccio la nostra esistenza e la nostra modernità.

lunedì 9 settembre 2013

Flowers in the Attic

Divenuto un vero e proprio caso letterario negli USA, "Flowers in the Attic" di Virginia Andrews ci attira e ci repelle in egual misura, precipitandoci in un'infinita spirale di orrori.





Correva un'abulica ed indolente mattinata d'estate, ed io, sempre più annoiata, mi accingevo a scorrere meccanicamente l'ormai nota home di Tumblr: mai avrei immaginato che proprio quest'ultima sarebbe stata la fonte della mia nuova ed inaspettata scoperta letteraria. Girovagando qua e là, rimango sorpresa dal compulsivo citazionismo che le blogger americane fanno di un particolare libro: "Flowers in the Attic" di Virginia Andrews. Tutto questo mi coglie decisamente impreparata e si scatena in me la più sordida curiosità: ma che cos'è questo tanto decantato Flowers in the Attic? Scopro che si tratta di un romanzo horror datato 1979 (uscirà circa un anno dopo anche in Italia per la casa editrice Sonzogno con il titolo Fiori Senza Sole, passando tuttavia del tutto inosservato, a tal punto che ad oggi l'edizione italiana è irreperibile), che è diventato un vero e proprio libro Cult per due generazioni di giovani americani appassionati del genere. Non è che il primo della cosiddetta "trilogia Dollanganger", che si compone anche di Petals in the Wind (1980) e My Sweet Audrina (1982). I due capitoli seguenti, però, non bisseranno assolutamente l'enorme successo del primo. Flowers in the Attic affronta tematiche disturbanti e morbose, ai limiti della censura per la puritana America dei primi anni ottanta. La trama è perversa e sinistra, quasi inverosimile: sono i primi, sfavillanti anni cinquanta, gli anni del più grande boom economico di cui gli USA abbiano mai potuto godere, e la famiglia Dollanganger vive serena nei sobborghi di una tranquilla cittadina in Pennsylvania. La situazione precipita con la morte improvvisa del capofamiglia: i quattro figli della coppia, chiamati affettuosamente Dresden Dolls (se vi siete mai chiesti da dove provenga il nome del gruppo di Amanda Palmer..bhe,ora lo sapete) per via della loro pelle di porcellana, vengono rinchiusi in un'angusta soffitta dalla madre e dall'anziana nonna. Da qui in avanti sarà un'escalation di orrori: incesti, abusi sessuali, sevizie di ogni genere. Particolarmente ributtante l'episodio dell'avvelenamento perpetrato dalla nonna ai danni dei due gemellini più piccoli. Flowers in the Attic si legge d'un fiato, la scrittura quasi dilettantesca della Andrews non sembra essere d'intralcio al dispiegarsi della trama, anzi: rimaniamo incollati alle pagine sino all'inaspettato finale. A lettura conclusa, il libro ci lascia prede di un sottile velo d'inquietudine, che serpeggia svelto sottopelle e che ci accompagnerà per molti giorni a venire. E' l'annichilamento dell'infanzia che la Andrews ci descrive a farci rimanere disgustati: un'infanzia svilita, corrotta, infettata dalle perversioni e infine uccisa. Nel 1987 esce anche un film tratto dal romanzo, diretto da Jeffrey Bloom, che riscuote anche un discreto successo. In Italia lo conosciamo come Fiori nell'Attico. Persino la più famosa figlia di papà di Hollywood, Sofia Coppola, non fa mistero del suo amore per Flowers in the Attic: protagoniste di uno dei suoi più famosi corti, Lick the Stars (1998), sono quattro ragazze ossessionate dalla famiglia Dollanganger.


B.R

domenica 8 settembre 2013

Jenus di Nazareth

Un Messia con tutte le risposte, ma che non ne ricorda nemmeno una!



Lo scorso Luglio è ufficialmente uscito il primo numero di Jenus, ironico e sarcastico fumetto scritto da Don Alemanno ed edito da MagicPress. Il primo numero era già uscito come numero zero on line, disponibile sul sito interamente dedicato http://www.jenusdinazareth.com/, tuttavia, da ora in avanti, sarà disponibile in una collana editoriale con uscite bimestrali.
La storia promette bene subito dall'incipit, il periodo è attuale ed il protagonista è decisamente popolare ormai da secoli.
Siamo nella stazione orbitante "Paradise" dove stanno avvenendo i preparativi per il secondo ritorno del Messia sulla Terra, l'ordine è redimere l'umanità e farla tornare sulla retta via! Tuttavia gli avvenimenti non seguono esattamente i piani del Trino e al Messia, divenuto uomo e lanciato a velocità Mach 3 verso il nostro pianeta, non si apre il paracadute facendolo piombare violentemente sul suolo terrestre. In suo soccorso accorrerà Angius, il fedele Agnello di Dio, che cercherà di fargli riacquistare la memoria perduta per portare a termine la missione salvifica.



Un inizio così promette già bene e lo svolgimento non delude. Attraverso la sua scrittura pungente, comica e sarcastica l'autore ci regala un' improbabile visione, di quello che penserebbe Gesù se tornasse sulla Terra oggi e si trovasse di fronte l'istituzione ecclesiastica, di come potrebbe giudicare il risultato dell'interpretazione suoi insegnamenti. Il tutto è condito da una scrittura talvolta irriverente ma fresca e brillante, che non manca di creare rimandi con il fantasy, i videogiochi, l'universo nerd e anche la quotidianità. Emblematica è una frase del Pontefice: "Tue millenni! Tue millenni ci sono foluti per intottrinarli, tue millenni per tomarli... Tue millenni per chermirli e nel puio incatenarli..." dove direi che il riferimento è decisamente palese per non parlare poi del paragone tra Jenus ed i supereroi della Marvel, il caricamento di Jenus stile super Sayan o la trasformazione di Angius in BattleLamb che ci svelano il background pop-culturale dell'autore. 



Certo non posso non affermare che questo fumetto assuma talvolta toni dissacranti, ma le critiche mossevi dai credenti sono più forti rispetto alla satira sul clero e sulla sua ricchezza, piuttosto che sulla dottrina o alla riscrittura ironica di passi del catechismo. L'autore stesso si dice soddisfatto nell'aver dimostrato che spesso non ci si accorge nemmeno della satira sul contenuto tratto dalle sacre scritture, ma si guardano invece indispettiti gli attacchi alle figure ecclesiastiche del Vaticano. Questo è sintomo di un legame forse più forte nei confronti dell'istituzione, che verso gli insegnamenti bibblici e le questioni telogiche base della morale e della dottrina cristiana. Ed è per questo che Jenus, nel fumetto, volgerà la sua opera "redentiva" proprio nei confronti delle istituzioni, fatte di uomini, piuttosto che verso i credenti.

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venerdì 6 settembre 2013

Il seggio vacante

Uno spaccato schietto e disarmate della società odierna

Copertina del libro Il Seggio Vacante


Della famosa scrittrice J. K. Rowling avevo letto la saga di Harry Potter, diventata ormai un cult attraverso i libri, i film e tutto l'immaginario costruitovi intorno. Lo stile e la freschezza narrativa mi erano particolarmente piaciuti, così quando ho visto la sua nuova uscita, Il Seggio Vacante, non ho potuto fare a meno di acquistarlo. Già mi pregustavo un giallo ricco di colpi di scena con il ben sperato lieto fine e la vittoria della giustizia, giusto il mio genere! Tuttavia già dai primi capitoli ho capito che dello stile di Harry Potter si trovava bene poco e che questo libro mi avrebbe provocato non poche notti agitate. Sono stata letteramente intrappolata dalla vicenda, caratterizzata da molteplici personaggi, tutti toccanti e ben caratterizzati attraverso la penna della Rowling. Le varie storie si intrecciano in modo brillante senza mai far perdere il filo conduttore della vicenda.
La storia si svolge a Pagford ed inizia con la morte del consigliere più in vista, Barry Fairbrother, questo avvenimento dà il via ad una lotta intestina per l'occupazione del seggio, un terremoto che rimescola fazioni, divisioni ed alleanze.
Accanto alla vicenda politica, la Rowling dipinge uno spaccato dell'Inghilterra contemporanea, che dietro ad una bella facciata nasconde ipocrisie, rancori e tradimenti. Le famiglie protagoniste impersonano i modelli della società odierna, dove basta "un seggio vacante" per innescare guerre personali tra figli e genitori, mogli e mariti, ricchi e poveri.
Durante la lettura la mia mente tornava ai racconti, letti da adolescente, della famosa scrittrice L. M. Alcott. All'ora cercavo di immedesimarmi nell'Inghilterra di fine '800 e mi risultava così complesso capire come si potevano affrontare quelle situazioni, come si potesse vivere così. Il confronto tra gli spaccati sociali è stato inevitabile, ma la mia mente si è trovata totalmente consapevole delle situazioni delineate nel libro della Rowling, anzi vi si è ritrovata con avvilimento e anche un pò di ribrezzo.
Il seggio vacante è un romanzo che parla agli adulti, forte e disarmante proprio per la sua schiettezza, che porta in risalto i conflitti generazionali, le contraddizioni e la bassezza di una realtà così vicina a noi e che spesso fingiamo di non vedere. Il colpo di scena finale non può che riconfermare quanto detto e farci pensare a quante volte ci siamo voltati dall'altra parte, fingendo di non vedere, dando una sberla morale a quello che è il nostro impegno e resposabilità sociale e morale. 
Mi sento quindi di consigliare questa lettura, caratterizzata dalla tipica scrittura semplice ed accattivante dell'autrice, capace di far ridere, piangere ma sopratutto pensare.

O.P.

mercoledì 4 settembre 2013

Omossessualità, rifiuto e passione attraverso i tratti di Ebine Yamaji




Percorsi di crescita

 

 
Qualche mese fà girando per Milano mi è capitato di imbattermi in un volume che mi ha subito attirato, sfondo blu oltremare e disegni bianchi e neri puliti e raffinati, decisamente famigliari. Il titolo enigmatico "Indigo Blue" mi ha subito incuriosito e, dopo aver visto che l'autrice era Ebine Yamaji, non ho potuto non acquistare questo piccolo gioiello, soprattutto dopo aver letto "Love My Life" la sua opera precedente.



Ebine Yamaji è una fumettista giapponese di nuova generazione. Il suo debutto risale al 1998 su Young You ed inseguito è entrata a far parte di un gruppo di autrici di avanguardia sulla rivista Josei Feel Young. Leggendo le sue opere si può vedere la propensione dell'autrice ad indagare un mondo di amori difficili dal punto di vista sociale, famigliare o lavorativo. Le opere sono delicate, mature ed adulte. La fumettista tocca temi che in pochi hanno il coraggio di affrontare, in particolare quello dell'omossesualità che è trattato sia in Love My Life che in Indigo Blue anche se in modo decisamente differente. 
I protagonisti dei due lavori, infatti, sono lontani di almeno una generazione. In Love My Life, viene narrato il percorso di due ragazze adolescenti, lesbiche, che si innamorano e vivono la propria storia all'interno di due famiglie diametralmente opposte e immerse nelle incertezze sul proprio futuro lavorativo. Ichiko, dopo la morte della madre è riuscita ad instaurare con il padre un rapporto di amicizia e confidenza, inoltre vuole proprio seguire le sue orme, lavorativamente parlando, diventando traduttrice di romanzi americani. Questa apertura la porterà a venire a contatto con i segreti e le scelte più combattute dei genitori, facendola crescere e portandola ad iniziare un percorso di maturazione e presa di coscenza di sè. Completamente antitetica è la relazione di Eri con il padre, un procuratore con la puzza sotto il naso, che non ritiene la figlia in grado di sostenere l'esame per diventare avvocato e uguagliare la propria carriera. Per Eri quindi diventare avvocato è una sfida con suo padre per la quale è disposta a sacrificare tutto, non solo il suo futuro ma anche la propria felicità. 



Love My Life ci porta a seguire queste due ragazze per un piccolo periodo di tempo, conoscendo non solo le loro storie, ma anche la loro essenza, senza veli e senza censura, ma con grande delicatezza, tratto tipico di questa scrittrice. 
Questa stessa caratteristica la ritroviamo in Indigo Blue, che risulta però una delle prove più intense della fumettista. La protagonista, Rutsu, è una giovane scrittrice alle prese con la negazione della propria vera natura. Nei suoi romanzi, infatti, proietta la vera Rutsu sotto veste ambingua celandosi dietro nomi vaghi, che lascino al lettore la libertà di interpretare il sesso dei protagonisti. Intraprende una relazione, prevalentemente sessuale, con il suo editor e vive in una sorta di mondo che si è costruita rifiutando se stessa. Tuttavia sarà la redattrice di una rivista d'arte, Tamaki, a far crollare le finzioni costruite trascinando Rutsu in un rapporto che la farà allontanare dal proprio ragazzo. Non è sicuramente un percorso facile quello di questa protagonista indecisa, insicura e decisamente paurosa.



Non voglio svelare ulteriormente i dettagli di queste due bellissime opere. Meritano sicuramente, a mio parere, una lettura per il modo in cui si approcciano verso questo tema che nella società odierna rimane talvolta ancora un tabù. Inoltre lo fanno sotto differenti punti di vista mettendoci di fronte alle difficoltà che l'omossesualità purtroppo comporta non solo riguardo all'accettazione dell'individuo a livello sociale o famigliare, ma sopratutto personale.