Se nelle cose non ci metti la giusta energia, come in un full swing, non cambierà mai niente!
Tutto comicia con Shun, un teppista violento, giovane e sbandato. Dopo una rissa all'ospedale, scopre di avere un cancro in fase terminale. Una vita allo sbando che si prospetta di spegnersi in giovane età, senza apparentemente aver costruito nulla, senza essere arrivata in nessun dove. Ed ora sembra troppo tardi per cambiare, per dare un senso a quella esistenza alla deriva. Eppure no, non è così, questo è solo il punto di partenza. No, Full Swing non è una storia di redenzione, assolutamente no. Rappresenta una raccolta di vite, colte in quella fase più delicata, quando cercano la ragione di essere, il loro senso. La morte di Shun è solo l'inizio, il primo di una serie di personaggi, in cerca di qualcosa, di qualcuno che dia senso al loro vagare, al loro fluire nel mondo. Il fumetto si compone di 5 volumi, composti da una serie di storie autoconclusive, che vedono come protagonisti diversi giovani studenti giapponesi. Queste piccole narrazioni, pur essendo autoconclusive, si intrecciano e connettono creando un filone continuo che copre un arco temporale di un paio di anni. Durante la lettura man mano scopriamo le storie di ciascuno, ci immergiamo nella sua vita, nei suoi pensieri più reconditi e nelle sue paure. La ricerca dell'affermazione personale, in una società satura ed a volte terribilmente ingiusta, è il tema centrale che fa da sfondo a Full Swing. Tuttavia viene affrontato con grande speranza e con grande forza. Di fronte alle debolezze dei protagonisti compare una grande forza d'animo, di reazione, che rappresenta essenzialmente un inno alla vita, al vivere in modo pieno, energico per a non abbattersi di fronte alle difficoltà o ai fallimenti.
Lo sport diventa un vero e proprio simbolo di questa lotta, non a caso il titolo Full Swing è riconducibile al baseball, perciò nella maggior parte delle storie lo troviamo protagonista. Sbirciamo nella vita di Kogure che vuole diventare pugile professionista, in quella di Onishi, stella del calcio che ha dimenticato cosa significa vivere, amare, provare emozioni ed ancora Kitahori che sogna di diventare una judoka olimpica. Ma anche nelle storie dove non domina il sogno sportivo, esso rappresenta un forte insegnamento, poichè racchiude in sè quella forza ad andare avanti oltre le sconfitte. Ci si confronta con un mondo del lavoro difficile in cui si viene letteralmente gettati dopo gli studi universitari, ma anche con la difficoltà di scegliere il proprio percorso. I test d'ingresso rappresentano una forte barriera anche dal punto di vista psicologico oltre che una difficoltà reale. Asumi ha risultati fantastici ai test preparatori, ma non riesce a superare l'esame di ammissione, il suo è un blocco psicologico, un'incertezza di fondo che la fa scappare di fronte all'inizio di una nuova avventura. Hiro ha passato il test d'ingresso, ma non riesce a sostenere il carico di studio e questo lo ha portato ad una tale depressione da arrivare a distruggere la propria stessa esistenza ed i rapporti che aveva instaurato fino a quel momento.
Alcune storie toccano invece temi scottanti della società contemporanea come la necessità di mantenersi in qualsiasi modo, fino ad arrivare a prostituirsi. Il trauma dello stupro e la paura di non sentirsi mai al sicuro. Superare la morte di chi ci è caro per andare avanti. Le difficoltà famigliari consecutive ad un divorzio e la paura a rimettersi in gioco.
Il fumetto di Buronson è tutto questo e molto altro, non voglio certo svelarne tutti i particolari, è un universo di personaggi che delineano un panorama contemporaneo, una generazione che si immette in un mondo difficile, a volte non disposto ad accoglierla, ma che lotta con energia per ottenere il proprio Full Swing.
mercoledì 27 novembre 2013
lunedì 25 novembre 2013
Preferisco essere Cyborg che Dea
Donna Haraway e il manifesto Cyborg. Una riflessione per la Giornata contro la violenza sulle donne e non solo.
In molti mi dicono che sono un po’ Nerd. E’ vero, mi
piacciono le cose strambe e, come molti rappresentanti di questa categoria
volatile, adoro la fantascienza. Viaggi
spaziali, Robot, battaglie galattiche, viaggi nel tempo, teorie pseudoscientifiche
e cyborg. Si, i Cyborg. Ci ho fatto addirittura un seminario all’università.
Questo è un articolo per la giornata della violenza contro
le donne, ma allora, vi chiederete voi, che cosa diavolo centrano i Cyborg? Bè,
i Cyborg centrano eccome, in quanto vorrei rendere un breve omaggio all’audace
lavoro di una delle pensatrici più originali del nostro tempo, che, a mio
parere, offre spunti interessanti per ripensare al rapporto tra i generi.
Donna Haraway, classe 1944, cattedra presso il dipartimento
di “History of Consciousness” dell’università di Santa Cruz, professoressa
della European Graduate School dove insegna “femminismo e tecnoscienza” e
autrice del celebre “Manifesto Cyborg” del ’91.
La storia della cultura occidentale è sempre stata
caratterizzata da una struttura concettuale basata su coppie di categorie come
uomo/donna, naturale/ artificiale, corpo/mente. Questo dualismo non è mai alla
pari, ma al contrario comporta sempre un dominio di una parte sull’altra. Da questa
premessa la coraggiosa e beffarda proposta della Haraway: “Mi propongo di
costruire un ironico mito politico fedele al femminismo, al socialismo e al
materialismo. E forse più fedele ancora: come l’empietà, e non come la
venerazione o l’identificazione. Al centro della mia fede ironica, della mia
empietà, c’è l’immagine del cyborg. [..] La biopolitica di Michel Foucault non
è che una fiacca premonizione di quel campo aperto che è la politica del
cyborg.”
In questo “campo aperto”, in primo luogo ci sono i
“cedimenti di confine”. I confini che crollano sono quelli dei dualismi, quelli
del dominio di un categoria sull’altra, della disparità che rende schiavi e
succubi. Partendo dall’analisi della nuova influenza diretta della scienza e
della tecnologia sui rapporti sociali, la Haraway, erige il cyborg come simbolo
dell’ indeterminatezza delle identità tradizionali che ora devono essere
costantemente rinegoziate.
Si parla sempre a partire da una situazione, da un corpo, da una condizione,
non c’è alcun punto di vista assoluto e non marcato. Il nostro sapere è sempre
situato. Le considerazioni di Donna Haraway risiedono all’interno del dibattito
femminista , ma partono consapevolezza di una condizione storicamente
determinata e per questo possono produrre metodologie efficaci per la
comprensione e l’intervento sulla realtà.
Il punto fondamentale del discorso della filosofa americana
è che i processi di ibridazione tecnica e sociale esonerano i soggetti dalla
necessità di riferirsi ad un “mito di fondazione”. Un vagheggiamento
dell’origine come ancoraggio per legittimare l' identità individuale e
collettiva e quindi anche le opposizioni categoriali al suo interno. A questo
mito non si sono riferiti solo il capitalismo e il patriarcato ma anche i loro
antagonisti nel corso della modernità, come il marxismo e il femminismo. Questi
si sono arenati nella teorizzazione di un soggetto rivoluzionario a partire da
una gerarchia di oppressioni, da una posizione latente di superiorità morale o
di innocenza. Il Cyborg , invece, non ha origine, è elemento processuale e
fluido. La sua immagine metaforica, trasmutata nella prassi reale, può
indicarci una via per uscire dalla prigione delle dicotomie:
“Questo è il sogno non di un linguaggio comune, ma di una
potente eteroglossia infedele. E’ l’immaginazione di una femminista invasata
che riesce a incutere paura nei circuiti dei supervalori della nuova destra.
Significa costruire e distruggere identità, relazioni, storie spaziali. Anche
se entrambe sono intrecciate nella danza a spirale, preferisco essere cyborg
che Dea”
Se nel fenomeno della violenza sulle donne è ancora presente
il germe concettuale di un rapporto oppressivo e giustificato da un mito
originario, la provocazione della Haraway, ci porta verso lo smantellamento di
questo mito, a favore di un ripensamento dei rapporti tra i generi e della
rinegoziazione continua della propria identità individuale e collettiva.
sabato 23 novembre 2013
Semplice
Lo spaccato antropologico ed esistenziale di una periferia qualunque di una "città moltomoltolontana" qualunque. La vita di Mario. Ragazzo semplice, operaio, amante dei videogiochi e (anche se in un momento di stanca) supereore! Tutto questo e molto altro è "Semplice" di Stefano Simeone.
Come si fa ad affrontare un'esistenza comune dove "si sa sempre quel che sta per succedere", dove la normalità finisce per diventare quasi una prigione, dove l'estrema semplicità può diventare sinonimo di alienazione? Questa domanda mi riporta alla mia esistenza di paese, soprattutto alla mia adolescenza.
Sembrava non ci fosse mai niente da fare. La città era lontana, la gente in giro sempre la stessa, la noia sempre in agguato, eppure ci si inventava qualcosa, magari le stesse cose, pur di aggirare quell'esistenza ridotta.
Ogni personaggio di "Semplice", opera d'esordio di Stefano Simeone, cerca di andare avanti a modo suo, una carrellata di tipi umani che ci commuove e ci fa sorridere ad ogni pagina sfogliata.
C'è Michele, bambinone trentenne con l'erre moscia, che ha l'ossesione per le "Pecove" e s'interroga tutto il giorno su quale sia il miglior nome per un parco a tema, ovviamente sulle pecore.C'è Ernesto, vecchietto nostalgico, campione indiscusso di Boccia-Bowling, che passa le sue giornate a ricordare i tempi andati e a mangiare zucchero filato gusto puffo in compagnia di Brenda, la sua adorata ruota panoramica. Poi ci sono gli operai, che cercano di innescare la "Revolution" contro il malefico capitalista Wolf, colpevole di aver abolito il sacrosanto diritto alla pausa caffè. Infine, ma non per ultimo, c'è Mario, che trova un diversivo nel mondo della sua fantasia. Mario, infatti, anche se "in un momento di stanca", è un supereoroe.
Mario è sempre impegnato nel suo ruolo di della flotta stellare, è comandante in seconda della Revolution, ma trova anche il tempo per gli amici e per aiutare il vecchio Ernesto a vegliare su Brenda, dalla quale si vede la "città moltomoltolontana".
La città "moltomoltolontana" è abitata da ragazzi "molto molto strani". Gli studenti fuori sede. Per Mario queste persone sono incomprensibili. Quando tornano al paese non fanno altro che discutere con paroloni astrusi, anche per dire cose semplici. Mario, quando è in loro compagnia, si sente inferiore. Che ne sa lui di tutte quelle teorie, quei problemi esistenziali, quegli autori dai nomi più svariati. E' un ragazzo semplice, lui.
Mario è impantanato nella sua stanca routine, avrebbe bisogno di una scossa, qualcosa che dia un senso alle sue giornate che stanno diventando sempre più monotone e ossessive.
La scossa arriva da lontano e, manco a dirlo, ha le sembianze di una bella ragazza. Giada, studente fuori sede, carina, gentile e appassionata di cinema. Mario se ne innamora, ma come riuscire a competere con gli altri ragazzi? Quelli che parlano di Nouvelle Vague, che discutono ai cineforum, che vanno all'università? Lui è un ragazzo semplice, generoso ed è un supereroe (anche se in un momento di stanca). Ma questo può davvero bastare?
Giada è l'elemento che sblocca la mente di Mario, è il catalizzatore di una reazione di presa di coscienza che lo porterà a riflettere sulla sua stessa esistenza e, nello stesso tempo, è il propulsore per cambiare uno stato vitale che sa di oppressione.La collisione tra l'abitudine dell'infanzia protratta e l'incertezza dell'età adulta e del nuovo, genererà un vortice di sensazioni esilarante, fino allo scoppio finale dove tutto cambierà davvero.
Simeone, utilizzando toni vagamente infantili, stereotipi scherzosi e una gran quantità di citazioni pop, ci presenta una profonda indagine esistenziale. Le vicende prendono vita in una complicata, e riuscitissima, alternanza tra realtà e fantasia, dove il potere dell'immaginazione sembra essere l'unica panacea per gurarire la tediosità di una vita ferma e apparentemente priva di svolte.
La narrazione è fluida, scorrevole, gioca con gli stilemi della cultura pop e, un pò alla Woody Allen, l'autore si diverte a far interagire la voce narrante con i personaggi e con il lettore stesso. Il risultato è un'intensa e divertente rappresentazione della realtà di provincia, che ancora prima che una regione geografica, è uno spazio mentale, che si scontra con quello della grande città e con i suoi "misteri" incomprensibili.
La tipizzazione antropologica si mischia al racconto di formazione, alla crescita interiore e alla rottura della barriera della solitudine. Anche qui, come in tante altre opere, si è di fronte ad un fenomeno semplice, una cosa che capita a tutti nella vita, ovvero "il diventar grandi". Nonostante questa sua naturalezza, questa parte di esistenza sembra essere, alla fine, sempre una delle cose più complicate e difficili. Forse perchè è proprio qui che tutto si fa più "vero", che il crogiolarsi nella fantasia a volte non basta più e ci si scontra con la dura realtà.
Lo stile grafico di Simeone si adatta perfettamente al contenuto. Con il suo mix di colori e tecniche, l'autore, rende benissimo l' incontro-scontro mentale e geografico. Riesce sempre a smorzare i toni con la forza della sua originale ironia, senza tuttavia smettere di farci percepire la profondità del messaggio e quella vena di malinconia che spesso sottende al racconto di formazione.
Concludendo, "Semplice" è un'opera davvero molto interessante. Mario, sognatore ad occhi aperti, ragazzo semplice di periferia che cerca di colorare la sua grigia realtà con la fantasia, non può non affascinare, coinvolgere e anche intenerire il lettore. Per me è stato molto facile immedesimarmi in lui, mi sono ricordato certe sensazioni, certe giornate passate a fantasticare, in attesa di un cambiamento che sentivo doveva arrivare. Che dovevo cercare. Simeone riempie di magia il tutto con i suoi disegni, i suoi colori brillanti, che strizzano l'occhio alla grafica e ci regala un'eperienza stupenda. Consigliatissimo.
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mercoledì 20 novembre 2013
Il Nao di Brown
Nao Brown.Una ragazza anglo-giapponese tra disturbi ossessivi compulsivi, meditazione buddista, giocattoli e la ricerca dell'amore perfetto. Incantevole per gli occhi, il cuore e la mente. Il capolavoro di Glyn Dillon.
Ci sono volumi che ancora prima di leggerli sai già che ti piaceranno e che con un pò di fortuna, letti al momento giusto, finiranno non solo per piacerti, ma per entrarti dentro irrimediabilmente. Non so spiegarmi, è una sensazione, non sempre ci azzecca, ma la maggior parte delle volte si. Questo è quello che mi è accaduto con il Nao di Brown di Glyn Dillon.
Ho preso questo volumone a Lucca, l'ho tenuto sulla mensola per un pò, guardandolo ogni volta che entravo in camera, fino a quando una sera mi sono deciso a mettermi lì e leggerlo. Una volta iniziato l'ho dovuto finire. L'ho divorato.
Nao Brown è una ragazza anglo-giapponese che soffre di uno strano disturbo ossessivo compulsivo. Dimenticatevi la gente che si lava le mani 700 volte all'ora, dimenticatevi quelli che continuano ad accendere e spegnere la luce. Nao, infatti, soffre di frequenti attacchi di fantasie violente, che solo costanti esercizi di meditazione possono placare. Un bel problema.
La vita di Nao si divide tra un lavoro part-time in un megozio di toys, gestito da Steve, un amico del college, e una scuola buddista dove cerca di apprendere tecniche di meditazione che possano aiutarla con il suo disturbo.
La vita interiore di Nao è in continuo squilibrio. Nonostante cerchi di vivere con la maggior leggerezza possibile, la ragazza, non può fare a meno di continuare ad accusarsi e ad odiarsi per i pensieri violenti di cui è protagonista. Si sente cattiva e ha paura che anche la gente che le sta intorno la pensi così.
Nao è alla ricerca di qualcosa che calmi questo sobbuglio interiore, Nao è spezzata, scissa, sente il bisogno di qualcosa/qualcuno che la completi e le faccia vedere il mondo da una prospettiva diversa. Il disturbo psichico la porta ad un costante manicheismo riflessivo: buono/ cattivo, bianco/ nero. La malattia psichica viene allora riletta alla luce della filosofia orientale. Il disequilibrio, che è causa della malattia, deve in qualche modo riassestarsi. C'è bisogno di una neutralità, che riporti armonia tra mente e corpo.
L'autore si accosta a questi argomenti con un artificio meraviglioso, la storia di Pictor, un vero proprio fumetto dentro il fumetto, insieme alla progressiva descrizione dello svilupparsi dell'esperienza sua buddista di Nao.
La chiave di volta, che avvierà la situazione alla sua quadratura e all'equilibrio tanto cercato, risiede in un singolare personaggio, Gregory, un gigante buono, che quando beve diventa estremamente logorroico e si mette a sproloquiare sui filosofi e i letterati più disparati. Sarà lui l'uomo dei sogni di Nao, colui che le dimostrerà che "le cose non sono sempre bianche o nere. Ma il più delle volte sono marroni".
Dillon è davvero un maestro nell'affrontare un tema ostico come il disturbo ossessivo-compulsivo con grande leggerezza e profondità. La lettura è scorrevolissima, stratificata, la psiche di Nao ci si apre piano piano, noi ci entriamo e ci immedesimiamo, riusciamo a partecipare dei suoi pensieri, a sentire il suo disagio e la sua frattura.
Si oscilla tra euforia e disperazione, dalle volate in bicicletta con la musica nelle orecchie, alla tensione degli attacchi nervosi di pianto e ossessione.
Ogni atmosfera è un mix di sensazioni e culture. Tutto è pervaso da un alone orientale: buddismo, cultura zen e quella pop giapponese. Nello stesso tempo abbiamo anche l'inghilterra in sottofondo, con le sue strade, i suoi palazzi e i suoi pub.
Leggere il Nao di Brown è fare esperienza di un sacco di cose. Sentire rimbombi assordanti e godere di tiepidi silenzi. Fin dall'inizio ci sentiamo dissociati, rotti, ma piano piano cominciamo a ricomporci, a capire come le cose si amalgamo e prendono senso. Quest'opera è un viaggio interiore che si esprime in ogni particolare su carta, in ogni espressione dei protagonisti, in ogni scorcio privato e cittadino.
Una nota particolare la meritano sicuramente i disegni. Gli acquerelli di Dillon sono tra le tavole più impressionanti che io abbia mai visto. Tratti dai contorno scuri, marcati e precisi, campiti con tinte accese, ma delicate. Uno spettacolo visivo, un piacere per gli occhi e per il cuore.
Dillon ha dichiarato di essere influenzato da Moebius e Miyazaki. Questa cifra stilistica si può notare soprattutto nel "fumetto dentro il fumetto"di Pictor, dove Moebius e il maestro giapponese vengono in qualche modo fusi insieme, dando vita ad un piccolo gioiello dentro un'opera già di per se straordinaria.
Per concludere, non posso che consigliare il Nao di Brown a tutti, amanti dei fumetti e non, perchè siamo di fronte ad un'opera di egregia fattura, capace di far vivere un' esperienza emotiva intenssima, senza mai essere pesante pur mantenendo costantemente grande profondità e originalità. Un capolavoro da non perdere.
Ci sono volumi che ancora prima di leggerli sai già che ti piaceranno e che con un pò di fortuna, letti al momento giusto, finiranno non solo per piacerti, ma per entrarti dentro irrimediabilmente. Non so spiegarmi, è una sensazione, non sempre ci azzecca, ma la maggior parte delle volte si. Questo è quello che mi è accaduto con il Nao di Brown di Glyn Dillon.
Ho preso questo volumone a Lucca, l'ho tenuto sulla mensola per un pò, guardandolo ogni volta che entravo in camera, fino a quando una sera mi sono deciso a mettermi lì e leggerlo. Una volta iniziato l'ho dovuto finire. L'ho divorato.
Nao Brown è una ragazza anglo-giapponese che soffre di uno strano disturbo ossessivo compulsivo. Dimenticatevi la gente che si lava le mani 700 volte all'ora, dimenticatevi quelli che continuano ad accendere e spegnere la luce. Nao, infatti, soffre di frequenti attacchi di fantasie violente, che solo costanti esercizi di meditazione possono placare. Un bel problema.
La vita di Nao si divide tra un lavoro part-time in un megozio di toys, gestito da Steve, un amico del college, e una scuola buddista dove cerca di apprendere tecniche di meditazione che possano aiutarla con il suo disturbo.
La vita interiore di Nao è in continuo squilibrio. Nonostante cerchi di vivere con la maggior leggerezza possibile, la ragazza, non può fare a meno di continuare ad accusarsi e ad odiarsi per i pensieri violenti di cui è protagonista. Si sente cattiva e ha paura che anche la gente che le sta intorno la pensi così.
Nao è alla ricerca di qualcosa che calmi questo sobbuglio interiore, Nao è spezzata, scissa, sente il bisogno di qualcosa/qualcuno che la completi e le faccia vedere il mondo da una prospettiva diversa. Il disturbo psichico la porta ad un costante manicheismo riflessivo: buono/ cattivo, bianco/ nero. La malattia psichica viene allora riletta alla luce della filosofia orientale. Il disequilibrio, che è causa della malattia, deve in qualche modo riassestarsi. C'è bisogno di una neutralità, che riporti armonia tra mente e corpo.
L'autore si accosta a questi argomenti con un artificio meraviglioso, la storia di Pictor, un vero proprio fumetto dentro il fumetto, insieme alla progressiva descrizione dello svilupparsi dell'esperienza sua buddista di Nao.
La chiave di volta, che avvierà la situazione alla sua quadratura e all'equilibrio tanto cercato, risiede in un singolare personaggio, Gregory, un gigante buono, che quando beve diventa estremamente logorroico e si mette a sproloquiare sui filosofi e i letterati più disparati. Sarà lui l'uomo dei sogni di Nao, colui che le dimostrerà che "le cose non sono sempre bianche o nere. Ma il più delle volte sono marroni".
Dillon è davvero un maestro nell'affrontare un tema ostico come il disturbo ossessivo-compulsivo con grande leggerezza e profondità. La lettura è scorrevolissima, stratificata, la psiche di Nao ci si apre piano piano, noi ci entriamo e ci immedesimiamo, riusciamo a partecipare dei suoi pensieri, a sentire il suo disagio e la sua frattura.
Si oscilla tra euforia e disperazione, dalle volate in bicicletta con la musica nelle orecchie, alla tensione degli attacchi nervosi di pianto e ossessione.
Ogni atmosfera è un mix di sensazioni e culture. Tutto è pervaso da un alone orientale: buddismo, cultura zen e quella pop giapponese. Nello stesso tempo abbiamo anche l'inghilterra in sottofondo, con le sue strade, i suoi palazzi e i suoi pub.
Leggere il Nao di Brown è fare esperienza di un sacco di cose. Sentire rimbombi assordanti e godere di tiepidi silenzi. Fin dall'inizio ci sentiamo dissociati, rotti, ma piano piano cominciamo a ricomporci, a capire come le cose si amalgamo e prendono senso. Quest'opera è un viaggio interiore che si esprime in ogni particolare su carta, in ogni espressione dei protagonisti, in ogni scorcio privato e cittadino.
Una nota particolare la meritano sicuramente i disegni. Gli acquerelli di Dillon sono tra le tavole più impressionanti che io abbia mai visto. Tratti dai contorno scuri, marcati e precisi, campiti con tinte accese, ma delicate. Uno spettacolo visivo, un piacere per gli occhi e per il cuore.
Dillon ha dichiarato di essere influenzato da Moebius e Miyazaki. Questa cifra stilistica si può notare soprattutto nel "fumetto dentro il fumetto"di Pictor, dove Moebius e il maestro giapponese vengono in qualche modo fusi insieme, dando vita ad un piccolo gioiello dentro un'opera già di per se straordinaria.
Per concludere, non posso che consigliare il Nao di Brown a tutti, amanti dei fumetti e non, perchè siamo di fronte ad un'opera di egregia fattura, capace di far vivere un' esperienza emotiva intenssima, senza mai essere pesante pur mantenendo costantemente grande profondità e originalità. Un capolavoro da non perdere.
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recensioni
sabato 16 novembre 2013
Australia
Aborigeni, coloni e
immigrati. L’Australia a Londra
Sono un frequente fruitore di voli low cost mentali verso le
destinazioni più disparate e devo dire che tra le mie mete preferite ci sono
sempre state gli Stati Uniti e l’Australia.
Gli States ce li ho sempre avuti in testa, perché, in un
certo senso, li ho sempre avuti davanti agli occhi e dentro le orecchie. Ci
sono cresciuto con il mito dell’America, mi è sempre stata vicina, e ormai
aspetto solo l’occasione per prendere un
aereo vero che mi ci porti e, magari, scoprire che il posto dove sono stato con
la fantasia, ormai migliaia di volte, non centra nulla con quello reale.
L’Australia, invece,
mi ispira perché è lontana. Ho visto documentari, foto e qualche film che mi
hanno parlato in qualche modo di questo continente enorme, dominato da una
natura imponente e selvaggia, crogiolo di culture e mistione di popoli.
Tuttavia per me rimane una terra quasi immaginaria, alla quale non riesco a
dare un’identità, nemmeno creandola nella mia testa. L’Australia per me rimane
il continente ai confini del mondo.
Dal 20 settembre al 8 dicembre, forse, questa distanza può
diminuire, almeno per chi ha la fortuna di essere a Londra nel suddetto
periodo. La Royal Academy, infatti, ospita “Australia”, una mostra-evento,
ricca ed ambiziosa, che si propone l’intendo di raccontare il Paese nelle sue
molteplici sfaccettature dal 1770, anno di arrivo dei primi coloni britannici,
fino ai giorni nostri.
Più di duecento opere, tra dipinti, disegni, acquerelli e
fotografie, per accompagnare il visitatore lungo un percorso tematico e storico
il più possibile esaustivo. “Australia” è il maestoso tentativo di far
conoscere il continente esplorando le sue varie anime sociali e culturali: si
va dall’arte dei colonizzatori e immigrati occidentali a quella degli aborigeni
contemporanei.
Il paesaggio è sicuramente il protagonista principale delle
produzioni. Terra antica, di aspra e sublime bellezza, pervasa dal mistero di
tradizioni ancestrali, gli infiniti spazi australiani sono stati l’ispirazione per un gran numero di
artisti. Nelle opere esposte trova inoltre espressione la complessa
stratificazione di un tessuto collettivo, fatto di stili e tradizioni
differenti. Un continente costantemente in bilico tra rivendicazioni locali e
influenze europee, calate, comunque, in una storicità del tutto autonoma.
Tra i pezzi in mostra, ammiriamo l’arte aborigena con il
gruppo Papunya Tula , Albert Namatjira, Rover Thomas, Emily Kngwarreye, che ci
parlano del grande deserto occidentale. Accanto a loro troviamo l’arte dei
pionieri, degli immigrati ottocenteschi e degli impressionisti che ritraggono i
“Bushfire”, gli incendi dei grandi cespugli australiani, usati dai natii per
controllare il territorio. Infine i modernisti e il ventesimo secolo, con
artisti riconosciuti a livello
internazionale, come Simryn Gill, Bill Henson o Tracey Moffat. Abbiamo inoltre la riscoperta delle leggende e delle
tradizioni locali, come quella di Ned Kelly, eroe simbolo della lotta contro
l’oppressione occidentale, riportato alla vita dalle opere di Sidney Nolan.
“Il paese mi parla. Abbiamo bisogno di persone che comprendano il
paese, il modo in cui è connesso…
la
parentela, la canzone, la danza sono tutte connesse al paese.”
In queste parole dell’artista aborigeno Djambawa
Marawil, potrebbe essere riassunta l’essenza dell’arte australiana. Un’arte che
è intrinsecamente legata e intrecciata alla terra dove nasce, alle sue storie e
agli uomini che l’hanno popolata. Tutto questo ritorna ora verso la patria
colonizzatrice, colei che ha fornito alcuni dei geni che hanno contribuito alla
formazione di una nuova terra, unica e originale, che reclama in questo momento
il suo posto legittimo all’interno della storia dell’arte mondiale.
Per trovare l'articolo originale scritto da me:
http://www.artspecialday.com/laustralia-a-londra-aborigeni-coloni-e-immigrati/
mercoledì 13 novembre 2013
Turf
New York, 1929. La Grande Mela, alle porte della crisi economica e in pieno proibizionismo, è il teatro di una ferocissima lotta senza quartiere. Gangster, alieni, giornalisti, vampiri, mostri e mille altre diavolerie si intrecciano e si scontrano in un audacissimo e coinvolgente mash-up firmato Jonathan Ross e Tommy Lee Edwards
Le opere audaci mi piacciono. Apprezzo gli autori che sanno osare. Quelli che scommettono su cocktail assurdi e riescono a dargli un buon gusto, a farli stare in piedi. Certo, dietro l'angolo c'è sempre il caro vecchio detto de "Il troppo stroppia" e spesso certi mix improbabili danno adito a cozzaglie inconsumabili, ma non è il caso dell'opera di cui andrò a parlare.
In questo post parlerò di un vero e proprio pastiche di generi e temi differenti. Una miscellanea di personaggi che soltanto una sceneggiatura controllata e solida poteva riuscire a tenere insieme. Parlerò di Turf, scritto da Jonathan Ross e disegnato da Tommy Lee Edwards, miniserie di 5 volumi, riuniti in un volume della collana 100% Panini Comics.
Ambientato nel 1929 a New York, in pieno proibizionismo, il fumetto si configura come una storia di lotta tra fazioni rivali per il controllo della città. Fin qui sembra un film di De Palma o di Scorsese. Tutto già sentito e tutto già visto, se non fosse che i signori in questione, Ross e Edwards, spingono sull'acceleratore della fantasia e della follia e finiscono per regalarci qualcosa che, di comune, non ha proprio un bel niente.
Infatti, la New York che si affaccia alla crisi, quella dei festini e della lotta al racket degli alcolici, città viva e incontrollabile, se la contendono: gangster (e fin qui tutto bene), vampiri ( e qui iniziamo a storcere il naso) e alieni! ( e qui abbiamo sbroccato).
Tutto inizia quando una giovane reporter, Susie Randal, stanca di occuparsi di cronaca rosa, segue una pista tra gli intrighi della criminalità organizzata. Susie, insieme al suo fidato fotografo Dale, scopre che il clan di Don Bava è stato brutalmente massacrato nella sua sede al Biltmore Hotel.
Le stragi si susseguono e le bande criminali sono in ginocchio. Dietro a questa ondata di violenza c'è la famiglia Dragonmir, un'antichissimo clan di vampiri, decisa a risvegliare "L'Antico", sterminare gli umani e impadronirsi di New York.Niente male come programma.
Mentre Susie continua le sue indagni, mettedosi sempre più nei pasticci, Eddie Falco, signore delle malavita newyorkese, non ci sta a sottomettersi ai nuovi arrivati e cerca alleati per lo scontro con i Dragonmir.
Eddie, gravemente ferito, troverà in seguito un alleato fortissimo e molto sui generis, ovvero l'alieno Squeed precipitato sulla terra con la sua navicella.
Man mano che le relazioni tra i personaggi si rafforzano e le alleanze si consolidano, con questo tripudio di figure ed eventi bizzarri, il volume si avvia verso il folgorante scontro finale che ci svelerà il destino della Grande Mela. Un racconto tutto da gustare.
Turf è un'opera ambiziosa, non solo nel suo concepimento e nello spregiudicato mash-up, ma anche per quanto riguarda la profondità dei dialoghi e della narrazione. Siamo di fronte ad un fumetto che non si legge in due minuti, ma che è una vera e propria "lettura". I testi occupano uno spazio importante, senza tuttavia soffocare le immagini.
L'opera segue un taglio cinematografico, le azioni si susseguono in modo rapido e fluido, i due autori si concentrano sui particolari, sulle parole, sugli sguardi. La cura per i dettagli e la qualità della sceneggiatura rende tutto assolutamente credibile e coinvolgente. A proposito di questo, gran merito è da riferire ad Edwards che con il suo stile semplice, raffinato e dinamico si adatta bene ad ogni tipo di situazione.
I personaggi sono ben caratterizzati, le scene degli scontri sono sempre accattivanti al punto giusto e non mancano i colpi ad effetto: tra cannoni laser, revolver, mostri giganteschi e morsi alla giugulare ce n'è davvero per tutti i gusti!
In conclusione, Turf colpisce nel segno ed è l'esempio che è sbagliato giudicare un'opera a priori dai suoi temi o dalla sua "copertina". Mafia, vampiri, alieni, giornalisti non potevano convivere in modo più bilanciato e strutturato. Ross, al suo esordio nel mondo fumettistico, scrive un trama solidissima e si districa bene tra la voce narrante in terza persona e i dialoghi in individuali. Edwards costruisce delle ottime tavole, oscillando tra toni fumosi e gotici ed esplosioni di azione di notevole impatto. Un'opera che, pur non essendo un capolavoro assoluto, coinvolge, diverte e si fa apprezzare per l'ottima qualità di fattura.
Le opere audaci mi piacciono. Apprezzo gli autori che sanno osare. Quelli che scommettono su cocktail assurdi e riescono a dargli un buon gusto, a farli stare in piedi. Certo, dietro l'angolo c'è sempre il caro vecchio detto de "Il troppo stroppia" e spesso certi mix improbabili danno adito a cozzaglie inconsumabili, ma non è il caso dell'opera di cui andrò a parlare.
In questo post parlerò di un vero e proprio pastiche di generi e temi differenti. Una miscellanea di personaggi che soltanto una sceneggiatura controllata e solida poteva riuscire a tenere insieme. Parlerò di Turf, scritto da Jonathan Ross e disegnato da Tommy Lee Edwards, miniserie di 5 volumi, riuniti in un volume della collana 100% Panini Comics.
Ambientato nel 1929 a New York, in pieno proibizionismo, il fumetto si configura come una storia di lotta tra fazioni rivali per il controllo della città. Fin qui sembra un film di De Palma o di Scorsese. Tutto già sentito e tutto già visto, se non fosse che i signori in questione, Ross e Edwards, spingono sull'acceleratore della fantasia e della follia e finiscono per regalarci qualcosa che, di comune, non ha proprio un bel niente.
Infatti, la New York che si affaccia alla crisi, quella dei festini e della lotta al racket degli alcolici, città viva e incontrollabile, se la contendono: gangster (e fin qui tutto bene), vampiri ( e qui iniziamo a storcere il naso) e alieni! ( e qui abbiamo sbroccato).
Tutto inizia quando una giovane reporter, Susie Randal, stanca di occuparsi di cronaca rosa, segue una pista tra gli intrighi della criminalità organizzata. Susie, insieme al suo fidato fotografo Dale, scopre che il clan di Don Bava è stato brutalmente massacrato nella sua sede al Biltmore Hotel.
Le stragi si susseguono e le bande criminali sono in ginocchio. Dietro a questa ondata di violenza c'è la famiglia Dragonmir, un'antichissimo clan di vampiri, decisa a risvegliare "L'Antico", sterminare gli umani e impadronirsi di New York.Niente male come programma.
Mentre Susie continua le sue indagni, mettedosi sempre più nei pasticci, Eddie Falco, signore delle malavita newyorkese, non ci sta a sottomettersi ai nuovi arrivati e cerca alleati per lo scontro con i Dragonmir.
Eddie, gravemente ferito, troverà in seguito un alleato fortissimo e molto sui generis, ovvero l'alieno Squeed precipitato sulla terra con la sua navicella.
Man mano che le relazioni tra i personaggi si rafforzano e le alleanze si consolidano, con questo tripudio di figure ed eventi bizzarri, il volume si avvia verso il folgorante scontro finale che ci svelerà il destino della Grande Mela. Un racconto tutto da gustare.
Turf è un'opera ambiziosa, non solo nel suo concepimento e nello spregiudicato mash-up, ma anche per quanto riguarda la profondità dei dialoghi e della narrazione. Siamo di fronte ad un fumetto che non si legge in due minuti, ma che è una vera e propria "lettura". I testi occupano uno spazio importante, senza tuttavia soffocare le immagini.
L'opera segue un taglio cinematografico, le azioni si susseguono in modo rapido e fluido, i due autori si concentrano sui particolari, sulle parole, sugli sguardi. La cura per i dettagli e la qualità della sceneggiatura rende tutto assolutamente credibile e coinvolgente. A proposito di questo, gran merito è da riferire ad Edwards che con il suo stile semplice, raffinato e dinamico si adatta bene ad ogni tipo di situazione.
I personaggi sono ben caratterizzati, le scene degli scontri sono sempre accattivanti al punto giusto e non mancano i colpi ad effetto: tra cannoni laser, revolver, mostri giganteschi e morsi alla giugulare ce n'è davvero per tutti i gusti!
In conclusione, Turf colpisce nel segno ed è l'esempio che è sbagliato giudicare un'opera a priori dai suoi temi o dalla sua "copertina". Mafia, vampiri, alieni, giornalisti non potevano convivere in modo più bilanciato e strutturato. Ross, al suo esordio nel mondo fumettistico, scrive un trama solidissima e si districa bene tra la voce narrante in terza persona e i dialoghi in individuali. Edwards costruisce delle ottime tavole, oscillando tra toni fumosi e gotici ed esplosioni di azione di notevole impatto. Un'opera che, pur non essendo un capolavoro assoluto, coinvolge, diverte e si fa apprezzare per l'ottima qualità di fattura.
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martedì 12 novembre 2013
Anatomia del desiderio
8 storie, 8 frammenti, 8 differenti modi di guardare al corpo ed al rapporto che abbiamo con esso attraverso i fantastici dipinti di Koren Shadmi.
"Nella nostra giornata raramente ci soffermiamo sul nostro corpo, la macchina che pompa ossigeno e sangue portando in circolo i fluidi vitali, i neuroni che trasmettono minuscoli impulsi elettrici nel nostro cervello, i muscoli che si contraggono e si rilassano. Ci accorgiamo del nostro corpo solo quando comincia a farci male, quando c'è qualcosa che non va."
Anatomia del desiderio è una raccolta di storie che ruotano attorno alle differenti relazioni tra uomo e corpo. Un'attenta è affascinante indagine di Koren Shadmi su questo allontanamento, questa dissociazione tra l'io ed il proprio corpo a cui assistiamo nella società contemporanea. Le storie appartengono a differenti periodi della vita dell'artista e questo ci permette di fruire di una lettura frammentaria e sorprendente, ognuno degli 8 racconti è una sorpresa ci offre un differente spunto e ci mostra un differente approccio.
Nel racconto Il cantante di cover vediamo un uomo che vive nel ricordo di una persona e di un corpo fuggevole, quindi cerca di ricostruire quei momenti, quelle immagini ed il suo sogno, non guardando al presente. Rifugiandosi nell'ideale di un corpo che non potrà ritrovare. Testardaggine ci mette di fronte all'incredibile boria di chi non capisce di dipendere completamente da chi gli sta intorno, di chi vive il proprio malessere fisico in un modo così totalizzante da non accorgersi della propria piccolezza.
La breve storia di nonno Elmer ha pochissime parole, solo alcune immagini che io però ho trovato davvero bellissime. Alla fine della vita il corpo diventa un nuovo terreno fertile capace di dare nuova vita, di fronte all'incapacità dei nipoti di vedere ed accettare la dipartita ed il fatto che il termine di una vita sia l'inizio di un'altra. Un altro piccolo racconto mi ha estremamente colpito, Conosci te stesso. Gli organi estrappolati dal proprio corpo-contenitore sembrano un gruppetto felice, tuttavia poco dopo il corpo collassa incapace di riempire e vivere con il vuoto formatosi dentro di sè. Apparentemente sembra così semplice, ma questa successione di immagini mi ha dato una terribile sensazione, tante volte pensando al nostro corpo ci figuriamo un'estetica, un involucro e ne dimentichiamo tutte le singole parti che ci sembrano quasi superflue in funzione del tutto. Ma queste rappresentano l'essenza stessa del nostro corpo che viene percepita solo in funzione della mancanza.
All'interno ci sono naturalemente altre storie e tutte davvero affascinanti, questa graphic novel si legge davvero tutta d'un fiato, anzi si sfoglia, si vive, perchè i disegni dell'autore sembrano parlare da soli senza bisogno di troppe parole senza bisogno di aggiungere nulla.
domenica 10 novembre 2013
Valvoline 2.0
Nell’immaginario di chi, come me, è nato alle porte degli
anni ‘90 e ama l‘arte in gran parte delle sue forme, il 900 è come un grande
cassettone di nostalgiche fotografie di cui avremmo voluto far parte. Con la
fantasia ho viaggiato avanti e indietro per questo secolo breve immaginando di
vivere in altri decenni. La musica, in questo mio vagabondare mentale, è sempre
stata una favolosa bussola, capace, in qualche modo, di identificare ogni epoca.
Sono cresciuto con il mito del Rock ‘n’ Roll, con il Cd di
Blonde on Blonde che si consumava a furia di suonare, con gli Who, I Rolling
Stones e i Beatles. Giovane Beat 2.0, sfrecciavo con la fantasia da New York a
Frisco, come Sal e Dean in On the Road. In seguito mi sono addentrato negli
anni 70’, il rock che si fa folle psichedelia, poi il progressive, che lo rende
più intellettuale e artificioso. Gli ’80, l’epoca dei miei genitori, quella che
per me è sempre stata “il tempo della disco music”, perché è così che loro me
l’hanno sempre raccontata, prima di conoscere per mio conto la new wave, il
punk, l’hardcore fino alle deflagranti distorsioni dei Sonic Youth e a tutto
quello che viene dopo e che, almeno un po’, ho vissuto.
Ho spesso visto il
presente come un pantano e un’epoca noiosa. Mi sono guardato indietro molte
volte, idealizzando il passato e tralasciando, malamente, quello che di
interessante mi succedeva intorno. E’ sempre importante ricordarsi che questo è
un errore e il 2013 ci offre un occasione in più per farlo, riportando alla
nostra attenzione una vicenda di grande spessore creativo e di forte presa di
coscienza sul proprio tempo. Iniziata
nell’83, conclusasi nell’90 e rifiorita proprio quest’anno. Sto parlando
della reunion di Igort, Brolli, Mattotti, Carpinteri, Jori e Kramsky, i ragazzi
di Valvoline Motorcomics.
Viaggiamo con la mente e andiamo all’83, in una Bologna
post-movimento studentesco e fucina di sperimentazioni. In quel tempo, di cui sappiamo
poco, spesso considerato come superficiale e glitterato, i Valvoline, si
sentono come i futuristi. Sono un movimento d’avanguardia, vogliono rompere con
il passato e rivoluzionare il mondo del fumetto e delle arti visive: “Come i
ragazzi di via Panisperna non avevano scelta. O la bomba atomica o Valvoline”
dichiara Igort.
Consumate le ideologie dei ‘60-’70, i Valvoline rivendicano
il diritto di rompere, riassemblare e stravolgere il senso di quello che era
stato. La loro produzione segue il rock ‘n’ roll forsennato dei Ramones e il rancido punk dei Sex Pistol, c’è voglia
di decostruire, di non crogiolarsi nel ricordo e nel revival del passato, di
ritrovare un primitivismo energico, sincero, duro, contro i viaggi astratti
della psichedelia e gli artifici del progressive. Come il movimento Cyberpuk,
che, negli stessi anni, aveva unito Hight Tech e Pop underground, i Valvoline amano
le contaminazioni, si ibridano con l’arte contemporanea e ne fanno parte. Le
loro opere richiamano i movimenti artistici degli anni ’20 e contemporaneamente
guardano alla televisione, alle nuove
tecnologie, al cinema, all’architettura, al design e alla letteratura, anticipando l’esplosione della Graphic Novel
e cambiando il modo di narrare per immagini.
Trent’anni dopo la prima esperienza Valvoline Motorcomics,
il rientro è in grande stile. Già in vendita
“Doctor Nefasto” di Mattotti, “Polsi
Sottili” di Carpinteri e tra poco sarà disponibile anche “Sinfonia a Bombay”,
rivisitate e edite dalla Cononino Press di cui Igort è direttore.
Il passato non si può rinnegare, ci sono cose che ci hanno
segnato e ci rimarranno per sempre dentro. Tuttavia non si deve guardare
indietro con nostalgia e al presente solo con nichilistica disperazione. I
ragazzi di Valvoline ci hanno insegnato che si può prendere il mondo,
distruggerlo con forza e ricostruirlo, e questa reunion può essere una bella
occasione per tenerlo a mente.
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