Propongo qui un breve articolo che ho scritto per www.artspecialday.com su Old Boy
Un uomo, dopo una
notte di bagordi, viene rapito. Egli si risveglia in una stanza sconosciuta,
senza sapere chi lo ha rinchiuso e perché lo ha fatto. Tutti i giorni, una
botola nella porta della stanza si apre e riceve del cibo cinese. Questa
routine continua per dieci anni fino a che, un giorno, senza saperne il motivo,
viene narcotizzato e poi liberato. Per l’uomo è
l’inizio di una nuova vita, caratterizzata da un solo pensiero:
vendicarsi di chi gli ha portato via tutto.
Quest’idea, tanto
essenziale, quanto disturbante, è Old
Boy. Una vicenda universale, quasi un patrimonio immateriale, che ha saputo
assumere molteplici forme nell’arco degli ultimi 18 anni.
Tutto inizia nel
1996, in Giappone, con il manga di Garon Tsuchiya e Nobuaki Mineghishi,
concluso in patria nel’98 e attualmente in ristampa per la J-pop. In seguito,
nel 2003, Old boy si fa conoscere al mondo intero grazie al capolavoro cinematografico
di Park Chan Wook, ispirato al manga e osannato da Quentin Tarantino. Il film
vince il Gran Premio della Giuria a Cannes 2004 e diventa immediatamente un
cult. Nel 2013 arriviamo alla seconda interpretazione per il grande schermo ad
opera di Spike Lee. Il film è uscito lo scorso 5 Dicembre in tutte le sale italiane.
Old boy è una storia
di grande potenza. Essa ci prende per la gola e ci costringe a porci delle
domande a partire da una situazione assurda, quasi kafkiana, che però, in
qualche modo, sentiamo essere così terribilmente possibile.
Come si reagisce,
allora, quando tutto ti è stato tolto senza un motivo? Cosa si cerca in un
mondo sconosciuto dopo una vita di prigionia? Quanto odio si può accumulare per
una vendetta contro qualcuno che nemmeno si conosce?
A queste questioni,
i vari autori che ho citato, hanno cercato di rispondere ognuno a suo modo.
Il manga originale
si presenta come un solido e raffinato thriller-noir. Il protagonista è come un
samurai contemporaneo, freddo e calcolatore, che ha un unico obbiettivo: la
vendetta. L’Old Boy di Tsuchiya mette in
scena il classico gioco “sadico”, tipico
di tanta narrativa nipponica, che tende a svilupparsi sulla psicologia dei
personaggi, qui tratteggiati in maniera esemplare. Il disegno di Mineghishi è
pulito e sicuro, quasi calligrafico. Ricorda il tratto essenziale del Naoki
Urasawa di Monster (1994), un altro capolavoro del thriller made in Japan .
Tutto, nonostante la violenza e la follia della situazione, appare controllato
in maniera maniacale.
Al contrario
dell’opera cartacea, il film di Park Chan Wook mette in scena un incubo
allucinatorio, dove la violenza e la visceralità della reazione del
protagonista sono gli elementi portanti. La vedetta è una corsa affannata
attraverso un vortice di passioni malate, dove anche l’amore diventa cattivo e
gli impulsi bestiali emergono prorompenti. Tutto è accompagnato da una colonna
sonora che toglie il fiato e da uno stile di regia claustrofobico e
asfissiante, che non esita ad indugiare sui particolari più cruenti. Un cinema
che ti si conficca nel profondo dell’anima, come un martello piantato nel
cuore.
Il remake di Spike
Lee porta, invece, la vicenda negli Stati Uniti. L’atmosfera abbandona la
brutalità dell’operazione di Chan Wook e il film assume un tono a metà tra
thriller e noir , simile a quello del manga. Il tema della vendetta perde la
sua pregnanza, lasciando maggior spazio al melodramma e ad un sorta di indagine
interiore. Il tutto si intreccia con numerosi riferimenti ideologici e
moralistici, rispetto ai quali Spike Lee non è di certo nuovo. L’interpretazione di Lee perde, perciò, molta
della tensione allucinata del primo film, ma anche della terribile freddezza
del manga. A mio parere è un remake di cui non si sentiva davvero il bisogno e,
nonostante gli sforzi del regista, la potenzialità dell’idea di Old Boy ne
risulta fortemente mutilata.
Il mio consiglio è
quindi di lasciar perdere quest’ultimo remake e, se non lo avete ancora fatto,
recuperare sia il manga, che il bel film di Park Chan Wook.
Old Boy è, prima di tutto, una parabola che ci
parla dei nostri istinti più basilari e ci mette alle strette davanti alla
nostra natura. Raccontarla vuol dire prendersi coscienza della sua portata
universale e il film coreano e il manga giapponese, pur mettendo in scena due
modi di vedere la vendetta totalmente differenti, riescono a prendersi in pieno
questa responsabilità.