giovedì 6 febbraio 2014

Distopie. Da Huxley agli Zombie










Al contrario di quanto si potrebbe pensare, sono sempre stato attratto dalla fantascienza, non tanto per il suo aspetto immaginario, ma per la sua particolare perspicacia nell’interpretare i sintomi delle piccole tensioni del presente. Per me, infatti, chi si occupa di fantascienza è come un medico che, dopo aver analizzato il corpo sociale, fornisce un responso sulla sua condizione attuale  e possibile evoluzione.
Ci sono due macro generi fantascientifici che incarnano molto bene questo aspetto “diagnostico”. Il primo è l’utopia e il secondo è la distopia. Ed è proprio su quest’ultimo che mi piacerebbe esprimere qualche parola.
Il romanzo distopico è caratterizzato dalla messa in scena di una situazione sociale  che è, potenzialmente, la peggiore possibile. A partire dall’inizio del novecento gli esempi letterari su questo tema si sprecano. Per fare qualche nome, potremmo citare tre libri universalmente riconosciuti come capolavori del genere, ovvero,( in ordine cronologico): Il mondo nuovo di Aldous Huxley, 1984 di George Orwell e Farenheit 451 di Ray Bradbury.
Il primo anticipa concetti quali lo sviluppo delle tecnologie della riproduzione, l'eugenetica e il controllo mentale, usati per forgiare un nuovo modello di società. Il secondo, invece, ci mette di fronte al quadro di una società fortemente gerarchica, basata su un regime propagandista che si serve della tecnologia per controllare ogni singolo membro della società. La giustizia è amministrata con un sistema penale violento che persegue l’eliminazione di ogni dissenso. Sul piano culturale è fondamentale la riscrittura continua della storia e della memoria, l’incitamento all’odio verso ciò che è esterno o diverso e il conseguente assoluto conformismo. 1984 è l’estremizzazione del totalitarismo politico e tecnologico. Infine, l’opera di Bradbury, si concentra maggiormente sul tema della mediazione culturale e del controllo dei canali di informazione. I libri bruciano e la televisione continua a parlare, come un pappagallo guidato da un governo che arriva ovunque.
 I tre romanzi che ho citato trovano un punto comune nella presentazione di uno stato totalitario, in cui la popolazione è controllata in ogni momento della vita. Ovviamente, questo modello, è stato molto popolare nella prima parte del ‘900 dove la Germania nazista e la Russia sovietica fornivano un “esempio reale” di distopia. 






Andando avanti con gli anni e arrivando fino ai giorni nostri, a mio parere, il modello distopico che ha prevalso è qualcosa di opposto a quello incentrato sul totalitarismo e il controllo. La caduta dei grandi blocchi politici, la globalizzazione sociale ed economica, lo sviluppo della tecnologia informatica, internet, l’avvento dei social network e l’avanzamento spropositato della biologia e dell’ingegneria genetica, hanno risvegliato in noi nuove fobie ( o letteralizzato quelle antiche), che la fantascienza, come sempre, ha saputo cogliere e interpretare. Pensiamo ad esempio a Neuromante (1984), di William Gibson, manifesto del cyberpunk e pioniere nell’analisi della relazione  tra l’uomo e la macchina nell’epoca cibernetica. Il cyberspazio è un luogo incontrollabile, fatto di connessioni volatili e di fibre ottiche, dove il rapporto tra cultura e natura viene riscritto. La riproduzione in serie dell’epoca meccanica, la catena di montaggio che aveva ispirato l’omologazione riproduttiva di Huxley, viene sostituita dalla modificazione genetica e tecnica che porta all’ibrido e al cyborg.
La distopia ora è il caos, l’assenza di controllo, l’abbattimento del limite e della definizione, che si manifesta sia nella liquidità della rete informatica, sia nello spettro di un ritorno allo stato primitivo. Antecedenti storici, come Il Signore delle Mosche di William Golding , ci avevano già illuminato in qualche modo su questo tema. Parlando di tempi più recenti, potremmo pensare ad uno dei più bei romanzi degli ultimi anni: La Strada di Cormac McCarthy. In uno scenario post-apocalittico, “l’uomo e il bambino”, protagonisti senza un nome, quasi ad indicare un ritorno al pre-linguistico, vagano in una landa grigia e desolata, dove vige l’etica della violenza bestiale e la civiltà è rappresentata da macerie e oggetti in disuso. Un altro esempio fondamentale potrebbe essere rappresentato dalla moda attuale per gli zombie o gli “infetti”. La paura del disastro batteriologico o di un’epidemia mondiale, che spacchi i legami civili per farli cadere nel baratro della ferinità. Anche qui, la distopia in atto, è quella del caotico, dell’incontrollabile e dello stato bestiale. Gli zombie di Kirkman (The walking dead), così diversi da noi, ma allo stesso tempo così simili, sono la materializzazione delle nostre attuali paure. Esse assediano la nostra parte razionale che, come i sopravvissuti al contagio, si ripara nel fortino di turno, sperando in un ritorno ( o in una non caduta) della nostra civiltà civile.




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