sabato 12 aprile 2014

Quando le cover degli album tornano in città





Strade, edifici, parchi, fabbriche, negozi e scorci cittadini . Quanti soggetti urbani impressi in un’immagine fotografica o in un dipinto sono diventati celebri a tal punto da diventare simboli di una città? Luoghi che a volte sembrano del tutto insignificanti, senza un particolare valore storico e artistico, che si trovano a diventare protagonisti della cover di un album musicale o ad attrarre l’attenzione di un pittore in cerca di ispirazione diventando, così, immortali per sempre.
La realtà e l’immagine finiscono per legarsi indissolubilmente. Tuttavia, come si sa, una fotografia o un quadro consegnano il proprio soggetto all’eternità, così come è stato impresso sul supporto, mentre, le città, sono esseri in continua mutazione. Lo scorcio che aveva ispirato il click di una macchina fotografica o i precisi movimenti di un pennello potrebbe essere cambiato o forse, addirittura, perso per sempre.
Come sarebbe, dunque, sovrapporre ora il soggetto dell’immagine alla sua dimensione reale? Cosa succederebbe se cercassimo di riinserire quel luogo, che ha solo l’apparenza della tridimensionalità, che non può invecchiare, con tutti i suoi colori e le persone che lo abitavano, all’interno dello stesso spazio, che è si “lo stesso”, ma solo come punto geografico?
Queste domande non sono solo l’input per un’affascinante esperimento mentale, ma, grazie a Google Street View e photoshop, sono diventate la base per un’operazione artistica reale dall’impatto visivo davvero sorprendente. L’autrice di questa impresa è Halley Docherty, “Google street specialist” del Guardian che, tramite un accurato lavoro di fotomontaggio, ha sovrapposto le fotografie di dipinti e celebri copertine musicali alla visualizzazione attuale degli stessi luoghi su Google Street View. 



Il risultato è stupefacente. E’ come se davanti a noi lo spazio si trasformasse in una cartolina proveniente da un’altra epoca . Tutti abbiamo dimestichezza con quelle immagini, ma  ormai siamo abituati a pensarle come qualcosa che non ha una connessione fisica con un luogo. Vederle inserite tra gli elementi cittadini sembra donargli una nuova profondità, le riconsegna dal mondo delle immagini a quello reale, facendoci riflettere sulla straordinaria capacità di fermare il tempo propria della rappresentazione.
Ecco, allora, che Bob Dylan torna a camminare avvinghiato a Suze Rotolo per Jones  Street, ma i colori tendenti all’ocra e il furgoncino Wolkswagen ci dicono che siamo negli anni ’60. I nottambuli di Hopper sono sempre seduti al loro cafè, con l’interno che ci sembra così retrò paragonato a tutto ciò che lo circonda. Il palazzone di Phisical Graffiti sembra invece integrarsi benissimo nell’attuale paesaggio, così come lo sguardo enigmatico di PJ Harvey, nascosto dagli scurissimi occhiali da sole, mentre attraversa Time Square tra le macchine sfreccianti. Non potevano poi mancare la mitica Battersea Power station dei Pink Floid, con la sua luce così surreale rispetto al contesto e i Beatles, intenti ad attraversare, per l’ennesima volta, le strisce pedonali di Abbey Road. Un gesto così comune e naturale che ci sembra quasi possibile che i Fab Four stiano attraversando la strada proprio ora, ma ahimè, era il ’69.


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