Un cervo dall’aria quasi circospetta si fa largo tra una
vegetazione rigogliosa e selvaggia, mentre occhi misteriosi lo scrutano attenti e letali. Con la velocità di un
attimo fatale sulla gola del cervo si apre un sorriso scarlatto. Quello che
rimane è un gioco di sguardi tra chi sta ormai per morire, il cervo e il
ragazzo e chi sta per nascere, l’uomo. Captain Fantastic, secondo
lungometraggio di Matt Ross inizia così, con un rito di iniziazione che sembra
segnare il passaggio definitivo dalla giovinezza all’età adulta, l’atto finale
di un percorso educativo giunto al termine. Tuttavia sarà solo la prima tappa
di un viaggio fatto di rinegoziazioni, ripensamenti ed affioramento di nuove
prospettive.
Ben e sua moglie hanno deciso di crescere i loro sei figli
lontano dalla città e dalla società dei consumi, nel bel mezzo di una foresta
del Nord America. Sotto la guida tanto illuminata quanto autoritaria del padre,
i ragazzi, tra i 5 e i 17 anni, passano le giornate allenando duramente il
corpo e la mente: imparano a cacciare, a conoscere la natura, a lottare, ad
argomentare e disquisire dei più svariati temi (dalla letteratura alla fisica
quantistica), sviluppano il senso critico oltre a varie abilità pratiche e
creative. Suonano e cantano insieme, festeggiano il compleanno di Noam Chomsky
al posto del Natale, smontano i dettami dell’economia e delle politica
occidentale, si dicono “determinati dalle azioni e non dalle parole” ed
esclamano a gran voce “Abbasso il sistema!”. Quella alla quale assistiamo
all’inizio del film è una sorta di utopia, una repubblica platonica post
moderna su base anarchico-solidale (siamo in un luogo tra Thoreau, Stirner e
Steiner) immersa nel verde e saldamente governata da un
papà-filosofo-guerriero. Tuttavia, per lo spettatore, l’idillio dura poco: la
madre dei ragazzi, malata psichiatrica e ricoverata da tempo in un ospedale del
“mondo reale”, muore improvvisamente. Il triste avvenimento costringerà la famiglia ad
intraprendere un rocambolesco viaggio nella “normalità” per rendere l’ultimo
omaggio alla madre. Questo farà sorgere dissidi, contraddizioni e sofferenze
all’interno del gruppo e porterà Ben a rivedere la sua idea educativa e i suoi
figli a ridiscutere la stessa figura paterna.
Il regista, utilizzando i toni e i colori cari alla
tradizione della commedia indie americana, ci propone una riflessione a più
livelli sull’educazione. Gli ingredienti che a prima vista vengono proposti
allo spettatore non sono di certo nuovi: una critica ironica e dissacrante nei
confronti di alcuni stilemi tipici della società occidentale, la difficoltà di
comunicazione e di relazione tra chi persegue un modello alternativo di vita e
la gente “comune”, la famiglia imperfetta che ha bisogno di un viaggio di
formazione per far luce sulle proprie dinamiche ed identità interne (qui non c’è
il Wolkswagen giallo di Little Miss Sunshine, ma un vero bus di nome Steve).
Ross, tuttavia, non si ferma a questo, ma cerca davvero di problematizzare il
tema dell’educazione mostrando, non solo quanto il modo di fare occidentale
rischi di crescere delle persone ignoranti e prive di senso critico, ma
evidenziando anche i rischi di vie contro-culturalmente estreme e fortemente
ideologizzate come quella di Ben. I ragazzi infatti, che hanno vissuto in un
mondo chiuso e governato dalle idee imposte dal padre, non sono in grado né di
comunicare con i loro coetanei estranei a quell’utopia né di comprendere alcune
logiche e dinamiche della società in cui sono improvvisamente gettati. Il padre, inoltre, assume ben presto le
sembianze di un ambiguo dittatore-compagno, fautore di una rivoluzione
radicale che solo lui ha deciso nei modi e nei presupposti e che sembra
perdersi irrimediabilmente nella sua ottusità ideologica.
La sceneggiatura di Ross è fresca, leggera e intelligente
adatta a più piani di lettura, nonostante in alcuni punti si faccia forse un
po’artificiosa a fini comico-grotteschi. Sul finale il film assume un tono più
melò (che ha il suo apice nella scena della pira sotto le note di una
bucolica e folkeggiante Sweet Child O’
Mine) perdendo un po’ di leggerezza e stimolando un po’ sornione il lato più
emozionale dello spettatore.
Le interpretazioni degli attori sono tutte molto buone, in
primis quella di Viggo Mortesen, nei panni di Ben, davvero eccellente nel
presentare un personaggio carismatico, contraddittorio e sopra le righe, ma
fortemente credibile dall’inizio alla fine della pellicola.
In conclusione, Captain Fantastic è un buon film, leggero
nei toni e non eccessivamente profondo e stratificato, ma capace comunque di aprire più piani di riflessione
importanti sull’educazione e su alcune dinamiche della contemporaneità, al di
là degli slogan e dei luoghi comuni che a prima vista sembra mettere in scena.