You Don't Know Jack
La libertà di scegliere di morire come diritto umano inalienabile
Quando una vita dilaniata dalla sofferenza e dalla malattia si può ancora chiamare propriamente vita? Quando la perdità di molte delle nostre facoltà fisiche e intellettuali fa si che la nostra esistenza non sia più degna di essere vissuta? Quando il dolore che ci pervade è così forte da considerare la morte come l'unico sollievo possibile?
Queste domande sono solo alcune di quelle che normalmente infiammanno il dibattito etico-politico riguardante la legittimità di interrompere le cure mediche in stati di salute critica e scegliere di morire.
Il tema è senz'altro dei più complessi e controversi. Sono in gioco istanze morali, culturali e situazionali e ogni caso è diverso, quindi è molto difficile riuscire a tracciare una linea di demarcazione netta. Stilare una legge universale che regolamenti questa area di nessuno tra la vita e la morte è compito che non sembra adatto all'umanità, eppure le nostre possibilità tecniche e mediche ci impongono di interrogarci su questi argomenti.
Negli anni '90 gli Stati Uniti sono stati protagonisti di una vicenda straordinaria da questo punto di vista, ovvero il dibattito sull'operato di Jack Kevorkian, un medico patologo, compositore e pittore, che approsimativamente tra il '90 e '99 ha prestato assistenza al suicidio a 129 pazienti e praticato l'eutanasia sul centotrentesimo.
Mi è capitato di recente di vedere un film intitolato "You don't Know Jack" diretto da Barry Levinson e interpretato magistralemnte da Al Pcino che ha come protagonista proprio "il dottor morte".
Il film ci mostra l'operato di Kevorkian a partire dal primo paziente che gli chiede di morire a causa delle insostenibili sofferenze. Jack è fermamente convinto che chi ritiene il dolore talmente insopportabile da non poter considerare la sua vita nient'altro che un penoso calvario debba essere libero di scegliere la morte. "Morire non è un crimine" recita uno dei suoi aforismi più famosi.
Kevorkian è consapevole che il suo operato è ai limiti della legge e tocca un argomento su cui l'opinione pubblica è stata da sempre profondamente spaccata. Insieme alla sorella e ad un amico Neal Nicol ( J. Goodman) elabora quindi una complessa strategia che, oltre a "legittimare" il suo operato agli occhi di gran parte dell'opinione pubblica, sembra metterlo al riparo da una condanna legale. Kevorkian inanzitutto riprende il paziente, interrogandolo sulla sua condizione ed appurando la sua volontà di smettere di vivere. Dopo di che valuta attentamente il caso, accettando solamente pazienti "terminali" o dilaniati da sofferenze fisiche incurabili e rifiutando qualsiasi motivazione di altro tipo, come quella prettamente psicologica o "egoistica".( Nel film si vede il colloquio con un paziente depresso a causa di un incidente che chiede di morire. Il medico lo rifiuta perchè non "terminale" e avrebbe dunque la possibilità di avere una vita felice, una volta risolto il problema psicologico)
Una volta accettato il paziente e deciso il giorno dell'incontro, Kevorkian predispone una macchina, la "Mercy Tron", che rilascia alcune sostanze che provocano un arresto cardiaco subito dopo aver fatto cadere il paziente in stato comatoso. Il paziente decide quando attivare a macchina e in questo modo si da autonomamente la morte.
Il suo operato procura a Jack numerossissime chiamate a giudizio da cui tuttavia esce assolto, aiutato, oltre che dalle reazioni empatiche suscitate dai video dei pazienti nella giuria, dalle capacità e dalla lingua al vetriolo del suo avvocato.
Gli eventi si susseguono continuamente come uno scambio di battute tra Kevorkian che prosegue nella sua missione e lo stato del Michigan che cerca di fermarlo. La svolta decisiva avverrà quando Jack, deciso a portare il suo problema alla ribalta dell'opinione pubblica, nel 1999, dopo una trasmissione alla Cbs, viene incriminato di omicidio di secondo grado. Il caso in questione è diverso dai precedenti, in quanto Kevorkian somministra direttamente l'iniezione letale al malato che non era in grado di muoversi, rendendosi quindi responsabile diretto del decesso.
Jack Kevorkian decide di difendersi da solo in aula e il processo non ha per lui un lieto fine. Condannato a 25 anni di reclusione per omicidio di secondo grado, il medico ne sconterà 9 per poi essere rilasciato nel 2007 e condannato alla liberà vigilata per tre anni.
Questa è la vicenda a cui assistiamo nel film di Levinson. Al regista interessa farci vivere il travaglio esistenziale di Jack più che allargare il campo sul dibattito etico. Nel corso della storia scopriamo piano piano la determinazione di un uomo che credeva ( Kevorkian è morto nel 2011) nelle sue convizioni fino all'estremo, pronto a tutto per vederle realizzate. Quella di Kevorkian è una missione, una lotta senza tregua, una fede che lo accompagna in ogni sua azione e in ogni sua frase.
In tal senso l'opinione pubblica, le contestazioni e i movimenti pro e contro Kevorkian passano in secondo piano, pur facendo capolino in qualche scena, non sono mai al centro del racconto che si incentra sempre esclusivamete su Jack e la sua lotta.
Il film di Levinson è un film coraggioso, perchè sceglie di schierarsi in un certo senso con Kevorkian, di presentarci i fatti dal suo punto di vista, di farci empatizzare con il suo operato. E' praticamente impossibile non ammirare la determinazione e il senso per la libertà di uomo che è disposto ad andare contro tutti e tutto per un'idea che lui ritiene "rivoluzionaria" e "un passo avanti per l'umanità".
Nonostante il taglio fortemente biografico il film non si limita ad elencare una serie di eventi. L'interpretazione di Al pacino, oltre a mostraci l'operato del medico e farci scoprire a poco a poco le sue molteplici sfaccettature, ci tocca profondamente nell'animo e nella mente e ci costringe a ragionare su temi che urtano la nostra sensibilità.
La costruzione di Levinson secondo me funziona egregiamente, perchè calandoci pienamente nella vita di Kevorkian e non abbandonandosi a speculazioni più generali sulla legittimità del suo operato o sul tentativo di stabilire una linea di demarcazione tra vita e morte, porta la nostra attenzione su una dimensione tutta terrena della questione.
La lotta di Kevorkian ci viene presentata per quella che è, ovvero una lotta per la libertà umana e per la scelta situazionale. E' una riforma della ragione, un passo illuminista. Il medico riduce il suo campo d'azione alla possibilità di scelta umana ed è questa la sua grandezza. La sua battaglia non vuole determinare un criterio generale, metafisico, dogmatico ma vuole soltanto legittimare la libertà di una scelta consapevole, quella di morire dignitosamente.
Una delle opere pittoriche di Kevorkian
In più di un pezzo del film mi è rimbombata nella testa una famossissima frase di un filosofo austriaco a me molto caro, cioè "di ciò che non si può parlare di deve tacere". Jack lotta per ciò di cui si può parlare. Inquadra la morte in una visione del tutto umana e limitata, ovvero come la liberazione da una situazione di sofferenza insopportabile, non lasciando spazio agli aspetti per cui l'uomo è troppo piccolo per sentenziare.
I dibattiti etici, religiosi e filosofici spesso, su argomenti come questo, cercano di astrarsi dalla dimensione prettamente esperienziale, andando così a finire sul piano del dogma, cercando una definizione di vita e di morte come se fosse davvero possibile poter arrivare ad un piano chiaro, analitico e schematico su questioni di questa profondità.
Kevorkian sembra aver capito l'inutilità e l'arretratezza di questo modo di ragionare, che ci fa ristagnare in una dimensione "medievale" ( termine da lui utilizzato) e impedisce l'uscita dallo stato di minorità dell'uomo nell'ambito di una scelta che spesso si impone come necessaria, soprattutto date le nostre possibilità tecniche, ovvero quella di decidere se continuare a soffrire o lasciare questo mondo.
Le nuove frontiere della medicina ci permettono di influire in modo consistente con l'andamento "naturale" della vita, ci permettono di curare e ritardare la morte, anche per molto tempo. Con la tecnica l'uomo sembra costretto a giocare "a fare Dio" molto spesso. All'accusa di voler "fare Dio" selezionando e aiutando i pazienti a morire, Jack risponde che lo stesso medico che si accanisce con terapie, trapianti o macchinari su un paziente per tenerlo in vita gioca "a fare Dio". Obiezioni come questa sembrano ormai non avere più nessuna forza argomentativa. Infatti, in dibattiti di questo tipo, a causa delle nostre savariate possibilità d'azione è impossibile se non controproducente rifarsi ad un ormai ideale e lontano "stato naturale" con la quale legittimare o no il nostro intervento tecnico. La natura cambia in base alle nostre capacità e possibilità, è un'innervazione continua che ci pone davanti a nuove scelte e frontiere teoriche. L'uomo deve prendersi le sue responsabilità e accettare la sua libertà. E' questo il punto fondamentale dell'operato di Kevorkian, portare alla ribalta la questione dell'accettazione di un peso immane, ma tutto umano, cioè la libertà e la responsabilità di scegliere senza deleghe in base alle possibilità reali e alla situazione. Non c'è niente di divino, è tutto umano.
"Il medico deve occuparsi della vita e anche della morte", questa frase di Jack è ricca di spunti in quanto la morte, in questo caso, viene intesa come conseguenza di una scelta che fa parte di una possibilità della vita. Il medico, che è l'esperto, ha il compito di accompagnare il paziente nella scelta di morire, poichè essa deriva da una condizione di sofferenza della quale il medico è l'unico interprete "oggettivo", essendo proprio la malattia il suo campo d'azione.
Jack Kevorkian e la Mercy Tron
Attualmente il suicidio assistito è permesso in alcuni stati come Belgio, Olanda, Svizzera, Lussemburgo, Colombia e Oregon, Washington e Montana negli Stati Uniti. E' importante di nuovo sottolienare che il suicidio assistito è diverso dall'eutanasia, in quanto nel primo è il paziente che sotto la supervisione del medico decide quando togliersi la vita attivando la flebo con le sostanze mortali. Nel secondo caso invece l'azione non procede dal paziente ed è prorio questo che ha portato alla condanna di Kevorkian.
Il film di Levinson e la vicenda di Kevorkian sono, a mio parere, un ottimo spunto per riflettere su questioni di vitale importanza come il suicidio assistito e l'eutanasia, ma soprattutto ci portano a confrontarci con il tema del diritto al libero arbitrio e forse sulla necessità nel nostro presente di operare una svolta "illuministica" su queste tematiche. Tutto questo dovrebbe portare all'accettazione della responsabilità e alla legittimazione dell'azione umana sulla base di una presa di consapevolezza personale piuttosto che su leggi e dogmi invalicabili fondati sulla paura, la superstizione e la secolarizzazioni di modelli etici e culturali che ormai richiedono una critica attiva, una decostruzione e una rivoluzione.
Kevorkian ironizza sulla medievalità della legge dello stato del Michigan
Kevorkian ad una esposizione delle sue opere pittoriche
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