Come tutti sappiamo il World Wide Web è paragonabile ad un
organismo vivente che si sviluppa e si espande. E’ un universo pulsante, fatto di connessioni sempre più numerose,
tracotante di contenuti, idee e associazioni. Internet è qualcosa che avvolge
le nostre esistenze, istaurando un rapporto di rinegoziazione costante tra la
sua evoluzione e le nostre stesse esistenze.
Dato questo strettissimo legame che si è venuto a creare,
non stupisce che il secondo “stadio” di crescita del Web, il cosiddetto Web
2.0, abbia portato ad uno dei cambiamenti socio-culturali più sconvolgenti
dell’epoca contemporanea. Le nostre reti sociali, in precedenza solo fisiche,
trovano la loro versione in internet: nascono i social media.
My Space, Facebook, Twitter, Google plus, Linkedin,
Pinterest etc etc, sono questi i portali in cui la rete sociale che ognuno
tesse ogni giorno, in modo più o meno casuale, si materializza in una “mappa”
perennemente consultabile e immediata, integrandosi con tanti nuovi contatti
che spesso precedono la stessa conoscenza “di persona”.
Il numero di Dunbar, quel 150 che doveva identificare la
quantità di membri di una rete sociale in grado di mantenere relazioni stabili,
ormai è solo uno sbiadito ricordo. Migliaia di amici, migliaia di contatti,
infinite possibilità di conoscenza e dialogo. Abbiamo violato la “regola dei
150”. Abbiamo provato l’ebbrezza della popolarità, i pensieri e le immagini
delle nostre vite sono diventati come tentacoli di una piovra, in grado di toccare
chiunque e stimolare una reazione nei nostri confronti. Siamo diventati il
centro del mondo, ma a quale prezzo?
La comunicazione è cambiata, i modi di esprimere le proprie
emozioni sono cambiati e con loro anche il modo di sentirsi apprezzati. Chi più,
chi meno, qualunque utente di un social network si è in qualche modo sdoppiato.
La vita reale e la vita su facebook. Io sono il mio profilo, sono il sole di un
enorme sistema di pianeti che partecipano della luce che emano. Sono distaccato
da me stesso, smaterializzato e figuralizzato,
bisognoso d’attenzione come un bambino capriccioso. Regredisco.
Facebook e Twitter sono i nostri tecno-genitori, tutori
premurosi del fanciullino che è in noi.
Ad essere sincero, ragionare su tutto questo, mi reca un certo
fastidio. Pur cercando di razionalizzare la cosa mi rendo conto che questi
pensieri conservano sempre un fondo di verità e che, anche senza portarli a
situazioni estreme, una certa regressione emotiva connessa all’utilizzo dei
social abbia coinvolto un po’ tutti. Per ciò, quando ho visto il bel corto
d’animazione intitolato “Marc Maron: The Social Media Generation Animated”,
disegnato dal cartoonist Zen Pencil e
ispirato al comico Marc Maron, non ho potuto che fermarmi a riflettere.
Il corto rappresenta l’approccio morboso ai social network
alla stregua di una dipendenza dalla droga. Ogni stato postato in bacheca è una
richiesta di attenzione, un modo per sentirsi apprezzati e, forse, alleviare
l’anonimato della vita quotidiana. Si scrive, si mettono gli hashtags e si
guarda febbrilmente il monitor. Arriva il primo “mi piace” e i primi commenti.
Appare un sorriso sulla bocca illuminata dalla luce elettrica dello schermo. Il
pollicino è come la pressione sullo stantuffo di una siringa e la sostanza
stupefacente del riconoscimento sociale inizia ad entrare in circolo.
Forse dobbiamo davvero riconsiderare il nostro
rapporto con la tecnologia. Se internet cresce, noi dobbiamo crescere con lui. Secondo
l’animazione noi, gli adulti, siamo emotivamente una cultura di bimbi di 7
anni. Forse è un po’ esagerato, ma sicuramente il passaggio da figli bisognosi
d’affetto, soggetti di una overdose da social network, ad utenti maturi e
consapevoli è un tema su cui è necessario riflettere.
Video decisamente sacrosanto!
RispondiEliminaMolto ben fatto;)
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